Go to content Go to navigation Go to search

A=B ? · 2007-11-02 by mmzz

A=B è chiaramente sbagliato. Se A è A, come puó essere uguale a B, che non è A? A puó essere uguale solo ad A (A=A).
Quanto ho appena scritto sarebbe vero per l’uguaglianza “A”=“B”, ma il solo fatto di porre in relazione due oggetti non identici con una relazione di uguaglianza significa che uguaglianza e’ cosa diversa da identità.

Eppure tra uguaglianza ed identità vi è una forte relazione. Se dico A=B, sapendo che solo A e’ identico ad A e B e’ identico a B, voglio indicare che vi e’ una forma di identità anche tra A e B, anche se rappresentate da segni che sono diversi. Uguaglianza e’ un modo per comporre identità e diversità.

Inoltre va detto che A è cosa diversa da “A”. Il segno “A” rappresenta un significato A. In “A=B” ne A ne B rappresentano se stessi, ovvero i segni “A” e “B”, ma altro. Cioè sia A che B sono indicatori, etichette, variabili, maniglie attraverso le quali si vuole maneggiare, accostare, indicare qualcosa di diverso da “A” e “B”.
Ciò che “A” e “B” stanno ad indicare dipende dal particolare contesto in cui l’espressione “A=B” si trova,

Probabilmente vogliamo significare, attraverso il segno “A” una realta’ ampia e complessa, che viene ricompresa e riassunta in un solo segno, che la identifica e così ne riassume la sua identità.
Con “B” indichiamo una realtà diversa da quella ricompresa in A, parimenti sintetizzata in una identità simbolica, che a questa viene accostata e paragonata in modo che “A = B” esprima un senso di comunanza tra realtà diverse. Ad esempio dire “destra e sinistra sono uguali” in un contesto politico indica comunanza di comportamenti tra schieramenti politici, nonostante la apparente diversità ideologica. Se applicato all’anatomia delle mani, significa che queste sono simmetriche rispetto all’asse del corpo. Analogamente “io e te siamo uguali” è una frase che può assumere diverso senso, ma sempre indicando il rapporto di diversità ed identità.

Forse con la stessa indicazione di uguaglianza vogliamo sottolineare che uno dei due termini è una incognita, una “X” che viene messa in rapporto con un termine noto, una variabile già oggetto di esperienza. Con l’espressione “A=B” indichiamo la fine dell’incognita, la conclusione di un processo di ricerca.
Ad esempio con “l’assassino e’ il maggiordomo” attribuiamo all’incognita “chi e’ l’assassino” il nome di colui che ha compiuto l’atto.

Con “A=B” suggeriamo anche una metafora, ovvero una uguaglianza che non solo non è completa identità, ma in cui la distanza dall’identità è particolarmente significativa. E’ in ciò che il segno “=” risulta particolarmente provocatorio, dato che dovrebbe suggerire una identità, mentre viene espressa in modo eclatante una diversità. “Vostro figlio e’ un asino” e’ una affermazione che potrebbe essere rivolta a una coppia di asini senza intenti provocatori, ma asserire l’uguaglianza tra il quadrupede e lo studente poco diligente accosta realtà volutamente molto distanti per sottolineare la diversità profonda tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere.

La relazione di uguaglianza richiede un contesto, un ambiente all’interno del quale si svolge un processo di identificazione e differenziazione, di cui l’uguaglianza è l’esito finale, o perlomeno la parte compiuta del processo. Il contesto fornisce la semantica per attribuire un senso ai termini posti in uguaglianza, e anche il significato da attribuire all’uguaglianza stessa (il termine “=” o il verbo “è”). L’espressione “la risposta è uguale a quarantadue” non ha senso se prima non viene formulata una domanda alla quale il primo termine (“la risposta”) va riferito e che gli attribuisce un senso. Lo stesso va fatto per “quarantadue” (che potrebbe essere “Quarantadue” o “42”) e a “è uguale”, che potrebbe essere un “=” matematico, un isomorfismo, una relazione di simmetria, una similitudine o altra figura retorica oppure una relazione che trasforma “la risposta” in “quarantadue”. In tutti questi casi, il termine “uguale” rappresenta sia identità che diversità.

Così come l’espressione “A=A” è priva di interesse, inutile perché ribadisce una cosa evidente, un truismo, una tautologia, l’identità di qualcosa con se stessa non vale la pena di essere affermata. L’uguaglianza invece, ovvero il rapporto tra identità e diversità è massimamente interessante, non solo per le scienze esatte, ma anche in quelle umane. Cosa intendiamo per “tutti gli uomini sono uguali”? Non certo che sono identici, né che sono istanza molteplice di un unico prototipo di uomo ideale, ma che nella diversità vi è un elemento di identità che li accomuna e li identifica come uomini. “Essere uguali” significa condividere una comune identità, una identificazione.
Diciamo perciò che tutti gli uomini sono uguali proprio quando è in questione la loro diversità: davanti alla legge siamo uguali, nel momento in cui è questione di giudicare un colpevole, diverso dai tanti non colpevoli, ma ad essi identico in umanità.

Viceversa identificarsi, ricercare una identità, consiste nel porsi in relazione con delle diversità e raffrontarvisi, trovando via via quei caratteri di uguaglianza intesa proprio come rapporto di identità e diversità.

Information overload · 2007-10-30 by mmzz

The solution to the overabundance of information is more information
Everything Is Miscellaneous: The Power of the New Digital Disorder David Weinberger

Affermazione apparentemente contradittoria o paradossale, in realta’ e’ lapalissiana: per categorizzare, ordinare e rendere utili le informazioni abbiamo bisogno di altre informazioni (etichette, cartellini, gerarchie, nomi, classificazioni). Per dare un senso alle informazioni ci servono informazioni sulle informazioni, ovvero informazioni di secondo ordine (o meta informazioni).
Cosa hanno queste in piu’ di quelle? Cosa significa aggiungerne un livello? Che non serve agire sulle informazioni di primo ordine per attribuirvi un senso in vista di un determinato scopo, ma basta collegarle attraverso informazioni di secondo ordine. Questa operazione e’ la costruzione di conoscenza (intesa come informazione utile).
La situazione caotica, disordinata, puo’ rimanere tale purche’ vi sia una attribuzione di senso a un ordine superiore. A differenza di quanto accade agli oggetti del mondo materiale, con le informazioni questa operazione puo’ essere compiuta indefinitamente: si possono cioe’ attribuire piu’ volte informazioni di secondo ordine, e si possono aggiungere informazioni di terzo, quarto ordine a quelle gia’ esistenti.
Una collezione di libri puo’ essere ordinata in un modo solo sugli scaffali, aggiungendo informazione agli oggetti, ma una bibliografia puo’ essere articolata simultaneamente in piu’ modi, e i vari elenchi andare a comporre altri elenchi di ordine superiore (biblografia, biblioteca, sistema bibliografico, ecc).
Perche’ delle informazioni abbiano un senso , e’ tollerabile il loro disordine mentre non e’ tollerabile che manchi o sia in disordine l’informazione di secondo ordine.

Raz: autorità come servizio · 2007-10-15 by mmzz

Joseph Raz (in The problem of Authority) tenta una giustificazione dell’autorità e la delineazione di un criterio per la legittimità della stessa. Chiama questo ragionamento “service conception”, che intende rispondere a due domande che riguardano l’autorità:
“perché i comandi di uno sono un obbligo per un altro?” ovvero qual è lo status della direttiva emanata dall’autorità e “perché uno deve essere soggetto al volere e giudizio di un altro?” ovvero la questione dell’autorità vista in modo più ampio sul piano sociale e morale, cercando la fondazione del vincolo, del legame, il riconoscimento del diritto di comandare.
La distinzione tra le due domande pare sottile, ma la prima domanda si concentra sulla natura dell’obbligo, la seconda sul contesto sociale.

In entrambe le risposte Raz fa appello all’esistenza di ragioni dietro alle azioni e la necessità di conformarvisi.
La prima questione, diciamo teorica o tecnica, viene affrontata con il paragone tra autorità e promessa, entrambe parte del più ampio insieme delle obbligazioni che (con la sola espressione di una intenzione) anticipano dei doveri che prima non vi erano. Cambia il soggetto che esprime l’intenzione (chi promette o l’autorità), ma in entrambi i casi si anticipa un obbligo. Come vi sono delle condizioni perché una promessa sia valida (“binding”) così vi sono delle ragioni perché l’autorità sia legittima. Colui che è soggetto all’autorità ha nei confronti di questa dei doveri, mentre questa ha delle ragioni.

La risposta alla seconda questione (quella morale su quali siano le condizioni di legittimità del comando emesso dall’autorità) viene articolata su due condizioni: (1) che il soggetto si conformerà meglio a ragioni che gli si applicano comunque (cioè non ordini dell’autorità) se obbedisce all’autorità piuttosto che se non lo fa, e che (2) le condizioni sono tali per cui è meglio per lui conformarsi alla ragione che decidere autonomamente.

La seconda condizione può essere riformulata come “l’autorità è legittima solo se agire secondo il proprio giudizio è meno importante che conformarsi alla ragione” pur restando ferma l’importanza morale dell’azione indipendente.
La questione del come conformarsi ad una ragione è importante perché le ragioni che stanno dietro sia all’azione indipendente che a quella derivante dall’autorità si sviluppano diversamente. A un estremo vi è l’azione indipendente: il prendere da soli le proprie decisioni contribuisce a definire la propria identità ed indipendenza. All’altro estremo vi è la necessità di cedere il passo a una autorità per motivi imprescindibili di coordinazione dell’attività sociale, affinché sia garantita la conformità con le ragioni sottostanti.

Raz articola il modo in cui la conformità alle ragioni si sviluppa e manifesta: vi è la capacità razionale che consente di agire in base ad una visione del mondo, le emozioni (azione istintiva e non deliberata) ed infine l’autorità, declinata non solo come legame alla volontà altrui, ma anche promesse, voti e strumenti tecnici che “prendono decisioni per noi”. Si tratta di una scelta anticipata riguardo a un uso differito (e riferito) della propria capacità di prendere decisioni e raggiungere un obiettivo seguendo delle ragioni. L’autorità agisce in modo peculiare: di fatto limita questa facoltà di decidere autonomamente poiché prelaziona (“preempts”) le ragioni di fondo forzando il comportamento dei soggetti in modo che seguano le istruzioni anziché le ragioni stesse. L’autorità cioè emana direttive che rimpiazzano (e di conseguenza rendono non più evidenti) le ragioni di fondo. Queste sono legittime purché l’autorità agisca nell’ambito dei suoi poteri.

Alcune mie riflessioni derivate:

  1. Raz descrive il vincolo tra autorità (che deve avere delle ragioni) e soggetto (che ha dei doveri). Non fa riferimento ad alcuna reciprocità che pure risponderebbe bene alla service conception. Perché il legame funzioni, anche l’autorità deve avere dei doveri nei confronti del soggetto: mi viene in mente la tutela dei diritti che quest’ultimo deve dimostrare di avere in virtù di precise ragioni.Il dialogo tra queste ragioni, quelle dei diritti e dell’identità e quelle della coordinazione, determina l’evoluzione delle norme. Tuttavia si possono rilevare delle asimmetrie in questo dialogo: la prima è che l’autorità dispone del potere. Il monopolio della violenza legittima come estremo mezzo coercitivo sta sullo sfondo del dialogo più “protocollare” tra autorità e soggetto. Inoltre vi è una seconda asimmetria: mentre l’autorità prelaziona le ragioni (e in questo modo le “cancella” rendendole “invisibili”) dietro a un provvedimento formale, il soggetto deve manifestare le sue ragioni per vedere tutelato un diritto. A questo pone rimedio in parte il riconoscimento costituzionale, che si pone formalmente. Tuttavia la ragione dietro al diritto resta visibile e ne costituisce un contenuto che va oltre la forma. Questa visibilità delle ragioni dietro alla norma dovrebbe renderla più forte, ma in realtà la espone ad una interpretazione in modo più ampio che se fosse una norma della quale è visibile solo la forma.
  2. Le ragioni non sono uniche, e si confrontano tra loro. Raz affronta il problema del conflitto di leggi e del loro rango, ma non quello delle ragioni.Il suo punto di vista non essendo politologico ma giuridico (e positivo), questo è logico. Tuttavia il modo in cui le norme si formano e in cui prendono in considerazione le ragioni (e soprattutto le ragioni di chi ) non può non essere un elemento per considerare la loro legittimità.
  3. Il fatto che le norme perdano le loro ragioni (per la tesi della prelazione) o che perlomeno non sia possibile, nel contesto sociale, fare riferimento ad esse direttamente, apre un problema sulla loro interpretazione. Se la legge è la traduzione di una ragione da parte di una autorità destinata ad un soggetto, e se quest’ultimo non può più effettuare la traduzione inversa, ossia accedere alle ragioni attraverso le norme, il processo (in senso semeiotico) è una cifratura, una codifica cifrata di cui la chiave è stata buttata via. Si potrebbe ragionare sul fatto che l’autorità che produce la legge butta via una chiave che poi spetta ai giudici ricostruire, volta per volta.
  4. E’ suggestivo il continuum tra identità e coordinazione collettiva. Potrebbe essere un metro su quale misurare ambiti sociali, società, valori. Apre questioni interessanti quali: c‘è più di un modo per calare nella società combinazioni diverse delle stesse ragioni ? Che cosa queste diversità indicano? che cosa nascondono? Obbediscono a diversi principi che possono essere identificati? Ad esempio le combinazioni tra le ragioni dell’ambiente e dell’impresa industriale possono assumere varie combinazioni di provvedimenti più o meno sbilanciati verso la indipendenza dell’azione o verso il coordinamento dell’azione per ciascuno dei due soggetti.

regole · 2007-10-06 by mmzz

Riflessioni su regole, norme, potere e ragioni che vi soggiacciono.

Premessa #1: Il potere e’ la possibilita’ di ottenere obbedienza a un comando (M.Weber). Cosa distingue un comando dalle regole che guidano la convivenza civile, le norme sociali, le leggi?

Premessa #2: Chi scrive nuove regole lo fa perche’ rappresentano una intenzione da parte di una collettivita’ di seguire un certo pattern di comportamento (J.Raz). La regola espressa e codificata in un sistema giuridico (_legal rule_) viene spiegata (_explained_) con riferimento al fatto che e’ seguita e il comportamento praticato dalla collettivita nel suo insieme.

Questione#1: situazioni intermedie: Vi sono legal rules che non vengono praticate dalla maggior parte della collettivita’, che anzi ne contesta le ragioni (sia di primo ordine che talvolta di secondo ordine, negando il valore come exlusionary reason o ragione che trattiene dal contestare la ragione di promo ordine). Ad esempio il servizio di leva, lo scaricare da musica o video copiati, il non pagare le tasse. In passato: la negazione del diritto di voto a ampie categorie sociali, molte delle norme sul lavoro, ecc…

Questione#2: dinamica. Ammesso anche che la contestazione della norma porti alla sua modificazione o abolizione, seguendo la constatazione che la ragione che vi soggiace non e’ compresa, questo processo prende del tempo perche’ si sviluppa come conseguenza di un conflitto o comunque di una dialettica dall’esito incerto. Nel frattempo, e’ difficile che una regola contestata possa essere riconosciuta come ragione anziche’ come comando.
In poche parole, mi pare che Raz trascuri (almeno in Reasons for Action, Decisions and Norms) il fatto che le ragioni del potere non coincidono sempre o facilmente quelle della collettivita’. E che la collettivita’ stessa spesso stenta a trovare le proprie ragioni.

la definizione: il confine tra parole. · 2007-09-29 by mmzz

Spesso usiamo le parole ritenendo che possano essere utili a definire. Personalmente ritengo che questo sia molto spesso, se non sempre, un errore: le parole identificano dei centri semantici attorno ai quali vive la comunità di simboli, concetti, fatti, eventi che sono in stretta relazione con quella parola. A volte (polisemia) questi centri si sovrappongono nella stessa parola.
La definizione, ovvero il confine, la linea entro la quale vige un codice e oltre la quale ne vige un’altro, quel discrimine che segna l’appartenenza della cosa denominata a una comunità e ne esclude le altre, questa definizione non pertiene alla parola. Anzi, quando questo abuso semantico avviene ne nascono di solito gravi danni. Il termine “razza”, usato impropriamente per identificare l’appartenenza, ovvero attribuire una identità etnica, è un chiaro abuso: la razza è unica ed è quella umana. Il tentativo di attribuire un nome alla varietà di pigmentazioni della pelle e di origine etnica usando parole quali “nera”, “bianca”, “ebraica”, è un pretesto per dividere ciò che a priori si vuole dividere: si segna una traccia tra “noi” e “loro” e si attribuisce una parola a quanto sta di qua, e un’altra a quanto sta oltre. L’abuso semantico di parola, lungi dall’essere considerato un reato, viene chiamato “definizione”. Ma il tracciare un confine, non può avvenire solo puntando la gamba di un compasso in una parola che sta al centro di un territorio e pretendere di tracciare con l’altra un confine. Se si vuole comprendere quanto a quella parola si lega va frequentato assiduamente il suo territorio fino alle sue estreme propaggini, va attraversato in tutte le direzioni per scoprire le caratteristiche semantiche del terreno che la parola ricopre. Quello che accade, dopo questo assiduo sopralluogo, è che invece di scoprire dei veri confini, netti e delineati, tra due parole, si scoprono invece nuovi centri, nuove appartenenze, gamme intere di nuove sfumature. Le parole si moltiplicano e sovrappongono, invece che fronteggiarsi su una linea netta.
La parola, in altri termini, non può servire a identificare ma solo ad indicare un centro.

open megapatterns · 2007-09-19 by mmzz

Sto seguendo, per motivi trasversali, il convegno Berlin5 (il
sequel della dichiarazione di Berlino sull’“open access” della
produzione scientifica) che si tiene proprio a Padova in questi
giorni. E’ sorprendente come le “issues” dell’open access ricalcano in modo quasi noioso quelle dell’open source. Aspetti ideali, la qualita’, la bassa consapevolezza del problema da parte della massa, il rapporto con il contesto economico, incluso quello del business model corretto (questa volta per gli editori invece che per le sw house). Unico punto che il mondo FOSS non si e’ posto (al contrario di quello Open Access) e’ il rischio di cancellazione della memoria. Gia’, che cosa resta dei programmi “perdenti”? Lo stesso pattern, mutatis mutandis, nell’industria dell’entertainment (video, musica): e’ quanto ci raccontano da anni quelli del Berkman center (Lessig, Fisher, Benkler). Capisco che vi siano dei problemi nello studiare in modo scientifico questi megapatterns”, man non varrebbe la pena identificarne alcuni tratti ricorrenti, almeno per risparmiare modelli e convergere sulla terminologia? La ricerca dell’identita’ mi pare che sia uno dei pattern comuni dei tre mondi: la produzione scientifica, di codice e “artistica” fornisce all’autore, prima ancora che reddito, identita’: un lavoro “identificante” che si contrappone efficacemente a quello dominante, che e’ invece “alienante”. Questa risposta (di Francesco Rullani) riassume a mio avviso in modo assai efficace le motivazioni a partecipare. Un secondo pattern e’ che per poter fare questo, l’individuo da solo (il pensatore di Rodin) puo’ poco o nulla, serve un ambiente al quale tutti contribuiscono in un gioco collaborativo. Anche se il discorso di “standing on the shoulders of giants” sembrerebbe acquisito, poi scopriamo di avere problemi a distribuire il genoma decodificato della “bird flu”. Vabbe’... La rivoluzione digitale ha potenzialmente sollevato dalla dipendenza dei vettori verso il mercato (editori, software house,
distributori) proprio i prodotti culturali immateriali. La loro apertura, che una volta era subordinata ai limiti tecnici dei meccanismi di distribuzione, ora puo’ essere maggiore, se non totale, subordinatamente ad un fattore chiave: il reperimento di nuovi equilibri economici, ben rappresentato dalla ricerca del sacro graal del business model, presente in tutti e tre i mondi “colpiti” da questa rivoluzione. Non mi sorprenderei se questi equilibri fossero soggetti a una qualche comune condizione, visti (con tutte le differenze) i fattori comuni.

Addendum:
I parellelismi erano già statti notati da Glyn Moody in un articolo su Linux Journal (via Peter Suber)

Prima ancora, sia Lessig in Open Access and creative common sense
che Willinsky in The unacknowledged convergence of open source, open access, and open science
hanno affrontato piu’ direttamente il problema.

codice, sistema e divisione dei poteri · 2007-09-14 by mmzz

Tutto ciò che in un sistema è efficace è – necessariamente -, potenzialmente tossico. Ogni azione che induca un cambiamento nel comportamento del sistema può, se non limitata, indurne il collasso, la crisi, la morte.

In particolar modo gli input più potenzialmente tossici sono quelli di codice ovvero quel genere di input che altera il funzionamento del sistema, contrapposto all’input che non ha il potere di modificare il modo in cui il sistema trasforma il proprio input in output. In politica si chiameranno politiche costitutive, in biologia DNA, in informatica programmi (opposti ai dati), eccetera. Mentre il potenziale tossico dell’input che non sia codice può provocare un sovraccarico del sistema, un suo rallentamento o la sua inadeguatezza a rispondere all’ambiente esterno, l’input di codice può procurarne il disarticolamento, la perdita dell’unità funzionale dall’interno. I meccanismi di funzionamento sono alterati, e questo comporta una alterazione radicale dei rapporti con l’ambiente e con altri sistemi.

Questo il motivo per cui la produzione di codice in un sistema di solito è soggetta a meccanismi complicati e demandata a organi plurimi, mai singoli. Ciò che di tossico uno può produrre, l’altro può contrastare. Il pharmacon-veleno può essere contrastato dal controveleno. La produzione di codice deve poter essere repressa.

Da qui nei sistemi giuridici le maggioranze qualificate nelle leggi costitutive, i controlli di legittimità, lla rilevanza della giurisprudenza. I filtri antivirus e i complessi meccanismi di debugging nei programmi per computer, i meccanismi complessi che sovrintendono la replicazione del DNA e la sua protezione nel nucleo.

Tuttavia è necessario che il sistema, specie se complesso, possa evolvere, adattarsi all’ambiente, e non solo resistervi: deve poter modificare il modo in cui funziona, visto che anche l’ambiente e gli altri sistemi sono in costante evoluzione.
Da dove può un sistema accogliere lo stimolo per questo cambiamento, se non accetta codice dall’ambiente? Occorre che le leggi rispecchino i costumi, che il patrimonio genetico di una cellula muti e accolga DNA dall’esterno, oltre che le mutazioni casuali indotte internamente. Se si considera in senso lato un sistema informatico, serve che questo accetti nuovi programmi, o correzioni di quelli vecchi, per adattarsi a nuove esigenze e sfide.

La particolare difficoltà sta quindi per un sistema vitale nel fatto di essere aperto al codice che proviene dall’ambiente e nello stesso tempo guardarsene.

Fotografia e arte · 2007-09-03 by mmzz

Il fotografo (ad esempio Renzo Saviolo in una sua presentazione, ma non è l’unico) ci dice che l’immagine da lui fermata perpetua il presente e uccide la morte: e’ il miracolo del fermare il tempo. Sara’ sicuramente un miracolo, ma perché mai dovrebbe essere arte? Non serve un fotografo, basta qualcuno che scatti fotografie per compiere il prodigio. Forse a questo pensava il tale che ha inventato la macchina fotografica da mettere al collare del proprio cane, promuovendolo inconsapevole immortalatore dell’eterno canino presente dei luoghi da lui visitati. No, c‘è molto di più che il presente in una fotografia, e molto meno.
La realtà non sopravvive alla propria immagine, ma svanisce vittima del tempo, come tutto. Persa e’ la terza dimensione, perso e’ il flusso del tempo, perso (nel bianconero) il colore, perso l’odore, il rumore, il caldo o il freddo, la fatica, il peso sulla schiena e la macchina nelle mani, persi gli stati d’animo, la ricerca dell’inquadratura, le distrazioni e la luce negli occhi. Tutto questo svanisce o rimane nella memoria, trasfigurato in qualche modo. Solo qualcosa di questo si riversa nel frammento di superficie piana della pellicola, e molto di più vi si aggiunge. Ciò che genera l’inquadratura e la motiva e’ ben altro: e’ una visione, cioè un vedere oltre il guardare. La realtà e la sua visione sono cose ben diverse, infinitamente distanti. La visione si ispira dalla realtà e la interpreta, la trasfigura, ne svela la profezia nascosta: qualcosa che e’ colto in un lampo di bellezza, in un’armonia nascosta o in una dissonanza stridente. Un intreccio, una increspatura nella luce, uno scherzo delle superfici che passando da due a tre dimensioni lanciano un messaggio, l’ironia di una coincidenza, come un cane che guarda il fotografo di strada che immortala il pittore di strada, e lo riflette nello stesso scatto. Una crisi della realtà come la bruciante sofferenza di un volto nel suo fango o nella sua malattia, l’intuizione furbesca della imprevedibile scia di luce lasciata da un tempo lungo, oppure l’inattesa pace di un paesaggio dall’inquadratura composta scrupolosamente. Questo da sempre l’artista vede oltre il reale, e rappresenta.
Talvolta la visione resta chiusa e incomprensibile, segreto di chi ha cercato di comporla in un fotogramma, altre volte la sua trasmissione e’ potentemente efficace. In certi casi va oltre le aspettative, esce dal quadro ed esplode in una profondità inattesa, sorprendente: l’immagine diviene un pretesto per una più profonda meditazione, come quella di chi vede se stesso che guarda, riflesso nel vetro che dovrebbe proteggere l’immagine e invece la spalanca , vi si fonde e vi si scopre immerso. In altri casi chi guarda l’immagine non ha nemmeno bisogno di esservi traghettato dentro dal vetro-specchio: il miracolo si compie spontaneamente, siamo partecipi della visione, e commossi.

In questi miracoli, e non nel tempo inchiodato, vedo l’arte.
Di tempo ce n‘è tanto, sono le emozioni che lo rendono degno di essere ricordato. Arte, con la sua brava tecnica, è lo scatto che ferma l’emozione.

Commenta

memoria e memorie · 2007-08-20 by mmzz

mai come ora abbiamo a disposizione memoria e mai come ora tendiamo a disfarcene.

Possiamo comprare memoria a gigabyte, sia vuota, memoria per così dire in potenza, che memoria piena, perlopiù altrui. Memoria di musica, voce, riprese video, testi. Quella memoria può molto facilmente essere cancellata, dimenticata, scartata.

La quantità di artefatti che creiamo, di oggetti fisici e quella di prodotti intellettuali, la cui replicabilità è resa illimitata dai supporti digitali, ci condanna a ricordare una quantità immensa, mai generata finora, di potenziale memoria. Al ritmo attuale di produzione di oggetti, di articoli scientifici, di musica e video, non dimenticare nulla, non gettare nulla ci condannerà a una sostanziale amnesia per sovraccarico. Quella per cui Troisi, ne “il Postino” diceva che non leggeva libri, perché se ne scrivevano troppi, e non ce l’avrebbe mai fatta a starci dietro. Io adesso scrivo cose che possono essere (e saranno) facilmente dimenticate. Da una parte costerà poca fatica cancellarle definitivamente, dall’altra costerà talmente poco conservarle che potrebbero persistere, dimenticate, mai ricordate, magari nella cache di Google, per secoli. Tra parentesi, mi piacerebbe sapere se G ha previsto come dimenticare, come procedere allo scarto. E poi, cosa avverrà se G fallisse? La sua memoria sarà un inutile ingombro o un patrimonio?

Scartare oggetti e file, buttarli, sarà necessario per salvaguardare una memoria degna del nome, oltre che per avere un ambiente che non sia ingombro all’inverosimile.

Ambiente, sistema. Quello che non serve più al sistema viene espulso da esso e reintrodotto nell’ambiente, ove acquista una nuova funzione: o distrutto per tornare ad essere materia prima, o distrutto per non essere un veleno o un semplice ingombro, o conservato per essere memoria. In tal caso viene usato per estrarre informazioni, viene reintegrato in sistemi ad-hoc (i musei, le collezioni) per svolgere una funzione in essi. Il tempo di persistenza degli oggetti e dei file nell’ambiente è sempre minore, perché l’ambiente è saturo, visto che il turnover di oggetti nel sistema è aumentato: un oggetto viene metabolizzato come memoria in tempi brevi, pochi anni, e la sua persistenza nel limbo di nessuna funzione per nessun sistema (nemmeno per un museo) è
brevissimo.

Tra l’alternativa di nessuna memoria e troppa memoria sta lo scarto. Processo essenziale che determina la qualità e quantità di memoria destinata a permanere.

Resilienza · 2007-08-07 by mmzz

Quello che mi stupisce oltre ogni modo e’ la relisilenza di
certe strutture: nonostante le offese tengono botta e resistono, si
riadattano. Credo che sia una delle capacita’ tipiche dei sistemi
vitali e che le caratterizzi forse piu’ della tendenza a
riprodursi. Adattarsi a tutto. Se un sistema smette di adattarsi, di
reagire all’ambiente, e’ allora che e’ veramente morto: riprodursi
senza trasmettere la capacita’ di adattarsi non serve a nulla.

Piu’ che l’azione premeditata e’ la stupidita’, l’azione
inconsapevolmente nociva, dannosa, imprevedibimente e genialmente nefasta a generare distruzione e innescare resilienza. L’azione distruttiva premeditata e’ necessariamente focalizzata (o costa enormi energie, come il riarmo nucleare o la “soluzione finale”), mentre la semplice stupidita’ e’ la prosecuzione del caso, dell’evento catastrofico imprevedibile e sempre probabile, quello contro il quale occorre essere attrezzati per sopravvivere anche se e’ inverosimile che si manifesti. Piccoli danni, sempre costantemente presenti: se non sei attrezzato ti sommergono e muori. Se invece reagisci, ti adatti, cambi forma e risposta, (in una parola cambi il tuo codice, quello secondo il quale funziona il sistema vitale che sei), allora sopravvivi.

Da 30 anni la CLAC (la comunita’ che abita l’ex-macello) ha dimostrato, senza il becco di una lira, una formidabile resilienza.
Oggi sta affrontando l’ennesima sfida. Dobbiamo inventarci nuovo codice, e deve funzionare bene, perche’ dall’altra parte l’azione randomica e’ molto ben dotata e ricca di energie.

Commenta

Previous Next

This site made with