digiuno - pensieri dalla zona di interdizione/2 · 2020-03-08 by mmzz
digiuno /[lat. ieiūnus]. Periodo di astensione totale o parziale dagli alimenti – sia volontaria sia in osservanza di una prescrizione medica o di un precetto ecclesiastico – durante il quale l’organismo consuma i materiali nutritivi accumulati in precedenza/.
Quattordici giorni fa riflettevo su quello che il provvedimento di limitazione della libertà personale di movimento all’interno della Zona di interdizione avrebbe significato. Assieme alle considerazioni sul contagio stesso , cosa avrebbe comportato — soggettivamente, nella dimensione intima — il confinamento?
Sono giunto alla conclusione che si sarebbe trattato di un digiuno.
Dopo quattordici giorni ho compreso meglio quali sono le sue dimensioni.
Il digiuno è una scelta: come buona parte delle altre persone nella Zona, avrei potuto lasciare la Zona con maggiore o minore difficoltà, se lo avessi veramente voluto. Sia prima che la Zona fosse chiusa, sia dopo. Sia a piedi che forse anche in macchina. E ciò è dimostrato dai molti escursionisti entrati per sbaglio che chiedevano di uscire ai militari dei checkpoint. Se all’inizio del confinamento sono rimasto qui e se mi sono trattenuto è sostanzialmente per scelta.
In secondo luogo il digiuno è una astensione. Ad essere franco, devo precisare che il trovarmi qui prima dell’emergenza rispondeva già a un precedente bisogno di astensione dall’esposizione alla città, nato dalla considerazione che vivere o muoversi in città comporta l’essere esposti al desiderio degli altri. Cioè il desiderio altrui che io potrei esaudire: il “desiderio” delle merci di essere comprate, delle persone di essere guardate, ascoltate, ammirate o dominate, valutate in relazione ad altri. Vivere e muoversi in città espone ad una tale massa di desideri altrui che è difficile vedere il proprio; ovvero, in questo turbinio di desideri altrui è difficile sentire il proprio. Al contrario, un maggiore isolamento comporta essere più in contatto con il proprio desiderio, o anche con l’assenza di esso.
In terzo luogo il digiuno è l’accesso a una dimensione di necessità opposta alla libertà. Il mondo della natura (dal quale il virus proviene) è quello della necessità, dell’ananke a cui appartengono il bisogno di magiare, scaldarsi, spostarsi, incontrare persone con le quali scambiare, affrontare lo scorrere del tempo: i giorni, le stagioni, la vita.
Della città come luogo della libertà opposta alla necessità ha parlato lucidamente Hannah Arendt in Vita Activa riferendosi alla vita pubblica nella polis di Atene: da una parte la casa è il dominio della necessità, dall’altra la vita pubblica e sociale quello della libertà. L’uomo è libero solo dopo che ha sconfitto la necessità. La polis è emblema della nostra libertà, “essere liberi significava sia non essere soggetti alla necessità della vita o al comando di un altro sia non essere in una situazione di comando” dice Arendt. Il pericolo per la nostra salute e le restrizioni a cui siamo soggetti ci ricacciano da una parte nella necessità della sopravvivenza, e dall’altra nella sogezione al comando altrui. Ma al contrario degli ateniesi classici, noi cittadini abbiamo in buona parte perso ogni contatto immediato con la dimensione della necessità della vita: nelle città non lottiamo contro il freddo, la fame, la distanza. Nella città, e per chi non vive ai margini, il necessario è talmente garantito da essere in buona parte dato per scontato: in questo modo abbiamo in buona parte perso la percezione del valore della libertà (dalla necessità) come conquista.
Questa emergenza è un digiuno dalla città, il digiuno dalla libertà del cittadino, l’essere tuffati di nuovo nella necessità, è uno shock, ma possiamo servircene per recuperarne la radice. E di recuperare la radice, il senso, della polis, della vita politica, abbiamo un gran bisogno.
Ma la rinuncia principale, quella che ci costa di più, credo che sia quella che investe le abitudini. Tiziano Terzani in Un altro giro di giostra scrive:
Del digiunare si dice che i primi tre giorni siano i più difficili perché il corpo cerca disperatamente di fare quello è abituato. Al quarto giorno il corpo capisce, cambia ritmo e tutto diventa più facile.
Il digiuno e il confinamento rompono le abitudini, le routines. Le routines sono fonte di tranquillità, ma soprattutto generano efficienza: ci risparmiano un sacco di energia nel compiere scelte. Facciamo quello che abbiamo sempre fatto, così non dobbiamo fermarci a pensare a quello che occorre fare e in che ordine: se faccio sempre la stessa strada, non devo pensare ad ogni bivio o rotonda da che parte andare.
Ma ci sono dei momenti in cui le routines vanno rotte, le abitudini cambiate. E non è facile. Richiede energia, anche perchè le abitudini sono abiti, e gli abiti ci rivestono e dicono chi siamo. Cambiare abitudini può costarci l’identità, o pezzi di essa, e negoziare pezzi di identità è molto dispendioso.
Questo contagio, il confinamento e il digiuno che comporta cambierà molte routines, e ci costringerà a confrontarci con le identità che routines consolidate rappresentano.
Per esempio la paura di ammalarci ci farà stare più attenti al nostro corpo: faremo caso se il naso gocciola, se tossiamo, se abbiamo il fiato corto. Quale routine demoliremo? Quella di lavorare in qualsiasi condizione di salute non ci costringa a letto. Quali nuove routines useremo? Prenderemo delle misure di noi stessi, staremo attenti ai nostri limiti e agli altri. Cercheremo di attrezzarci per difendere la nostra salute, non solo di usare il nostro corpo per il lavoro.
Lo stesso riguardo possiamo averlo rispetto al lavoro, alla presenza fisica in luoghi di lavoro, agli spostamenti, i viaggi, di piacere o meno, le relazioni.
Cambiando scala, se vorremo ascoltarci, l’emergenza cambierà delle priorità anche per la collettività. E cambierà le routines collettive che ne derivano. Nel dover rispondere all’emergenza ci siamo accorti che la ricerca disperata dell’efficienza ha sacrificato la nostra resilienza: ci siamo irrigiditi a fare sempre meglio sempre la stessa cosa. Ma quello che abbiamo tagliato come spreco era proprio quel di più, la “scorta”, che ci serviva per affrontare la situazione anomala e imprevista: qualche medico in più rispetto a quelli strettamente indispensabili, qualche euro in più da spendere per il prodotto nazionale invece che quello ottenibile al massimo ribasso, qualche posto letto in più negli ospedali rispetto alla previsione della media stagionale.
In una parola, ci stiamo scontrando con il cambiamento di priorità, la routine del pensiero, che subdolamente si è infiltrato nel senso comune dominante dagli anni ’90: l’aziendalismo nella gestione della cosa pubblica, l’efficientismo spietato della compressione dei costi, magari sposato con la privatizzazione (che deve anche pagare profitto e dividendo).
Prima che il mondo fosse investito dall’emergenza climatica e da questo virus, sempre Terzani diceva:
.bq Gandhi nel suo mondo semplice, ma preciso e morale, lo aveva capito quando diceva: “La Terra ha abbastanza per il bisogno di tutti, ma non per l’ingordigia di tutti”
Grande sarebbe oggi l’economista che ripensasse l’intero sistema tenendo presente ciò di cui l’umanità ha davvero bisogno. E non solo dal punto di vista materiale.
Siccome il sistema non cambierà da sé, ognuno può contribuire a cambiarlo… digiunando, Basta rinunciare a una cosa oggi, a un’altra domani. Basta ridurre i cosiddetti bisogni di cui presto ci si accorge di non aver affatto bisogno. Questo sarebbe il modo di salvarsi. Questa è la vera libertà: non la libertà di scegliere, ma la libertà di essere. La libertà che conosceva bene Diogene che andava in giro per il mercato di Atene borbottando tra sé e sé: “guarda, guarda, quante cose di cui non ho bisogno!”
Quello di cui oggi abbiamo tutti bisogno è la fantasia per ripensare la nostra vita, per uscire dagli schemi, per non ripetere ciò che sappiamo essere sbagliato.
Possiamo superare questa emergenza approfittando dello sforzo che ci impone (per alcuni molto doloroso e costoso) per cambiare qualcosa o cercare ostinatamente di ritornare alle routines precedenti, alle identità precedenti, dichiaratamente e manifestamente fallimentari.
Possiamo riscoprire la libertà del cittadino ateniese che supera la necessità di sopravvivere in salute e si dedica alla cosa pubblica, o sforzarci ritornare alla libertà di individui-consumatori.
Questa crisi ci offre una opportunità di criticare le routines consolidate della società dei consumi di massa e cercare delle alternative. Ivan Illich ha fondato il suo sistema di critica della società industriale su una alternativa, che chiama società conviviale, nella quale vengono riformulati i rapporti tra strumento, individuo e società in modo che vengano privilegiate le intenzioni dell’uomo “austeramente anarchico”, esaltando la sua creatività e non la specializzazione dei compiti e la centralizzazione del potere. Illich (in La convivialità) scrive:
L’austerità non significa infatti isolamento o chiusura in se stessi. Per Aristotele come per Tommaso d’Aquino, è il fondamento dell’amicizia. Trattando del gioco ordinato e creatore, Tommaso definisce l’austerità come una virtù che non esclude tutti i piaceri, ma soltanto quelli che degradano o ostacolano le relazioni personali. L’austerità fa parte di una virtù più fragile, che la supera e la include, ed è la gioia, l’eutrapelia, l’amicizia.
Da questi primi giorni di digiuno ho capito che vi sono cose alle quali come Diogene posso rinunciare, e altre alle quali non sono disposto a rinunciare; ad esempio incontrare fisicamente le persone.
Possiamo ribellarci al digiuno oppure servircene per sondare il nostro desiderio — individuale e collettivo — e capire quali routines andranno conservate, quali demolite, quali costruite.
Il pregiudizio delle macchine e la fisiognomica machine learned Migliore la sanità, maggiore la mortalità?