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scarto · 2007-08-02 by mmzz

Sto assistendo e partecipando, mio malgrado, allo scarto della collezione di un museo. Il museo è quello didattico di storia dell’informatica, all’ex-macello di Padova. Lo scarto è quello imposto dal Comune di perché bisogna liberare i locali e basta. Questo mi innesca alcuni pensieri sulla valenza economica prima, sociale poi, di ciò che, come collettività, stiamo facendo: stiamo buttando ciò che è stato appositamente accantonato per essere conservato. Lo stiamo facendo lucidamente, coscientemente, deliberatamente. Mandiamo in discarica oggetti, manufatti che hanno decine di anni.

Se avessi scritto centinaia, di qualsiasi oggetto si tratti, la frase precedente avrebbe suscitato disagio in qualsiasi lettore. Ma solo decine di anni… beh, dipende da che manufatto si tratta, e da quante decine. Sono poche decine, e si tratta di manufatti tecnologici. Computer, strumenti biomedici, scientifici, roba che non serve più, ma che non ha ancora dignità di “pezzo da museo”. Valore d’uso nullo o quasi, valore di scambio nullo o quasi. Un limbo anche per Marx, un oggetto che, non essendo merce, non ha senso di esistere. Destino: la discarica.
Qualcuno, lungimirante, dice: più oggetti andranno in discarica, meno ne resteranno, più il valore dei pezzi residui aumenterà per effetto della scarsità. Economia elementare. Il tempo e lo scarto genereranno valore. Una operazione industriale come tante: più ne butto più i superstiti guadagnano valore: il costo di stockaggio non deve superare il valore finale.
Ma che tipo di valore, se di uso non si può parlare? Il valore di scambio? Culturale, bien sur! Qualcuno pagherà per vedere, studiare, confrontare, dissezionare, esplorare, collaudare, confrontare le vestigia del passato con … il presente.

Quindi si tratta di questo. La tecnologia passata (o qualsiasi altra opera di ingegno o creatività) serve ancora, ha un valore, se possiamo ancora confrontarla con quella presente, e necessariamente, futura. Perché il passato, ancora una volta, è l’origine, la scaturigine, l’oriente, ciò da cui nasce tutto, l’`_archè_. E, come dice la parola oriente, serve ad orientarsi: senza oriente, siamo dis_orientati_, persi, privi di destinazione. Sapere dove si trova l’origine, il punto fisso, il passo precedente, significa avere il riferimento per il prossimo passo. Avere il punto di riferimento sulla mappa, significa avere la mappa. Chi perde la traccia del proprio oriente perde la traccia del proprio occidente.Il passato è ad oriente del futuro.

Eliminare, scartare, condannare alla distruzione, aumenta il significato di ciò che resta, amplifica la portata del messaggio che porta. Scartare si, ma non troppo, non per estinguere. Ma nemmeno troppo poco, questo sistema vale solo per pochi superstiti esemplari, sazi di anni e carichi di responsabilità. Troppi sarebbero una folla vociante, una turba senza peso, ma nessuno significherebbe l’oblio, il nulla. No: deve restare il campione, l’esemplare, il punto fermo, la vera singolarità a rappresentare l’origine, il vero oriente. Ciò da cui veniamo, e a cui guardiamo per comprendere dove andiamo. Esemplare di inestimabile valore, non di uso (sarebbe lesa maestà) non si scambio monetario (sarebbe sacrilegio), ma valore simbolico di orientamento, valore culturale.

Ora chiediamoci: chi deve compiere lo scarto? Ovvio: l’Esperto. Colui che sa. Cosa può sapere? Discernere ciò che vale da ciò che non vale. Bene. Ma secondo quale criterio? Quello d’uso ovviamente no, Quello di scambio: forse. Ma come scartare oggetti recenti, di cui ancora non esiste un mercato, se il loro passato è ieri? Se sull’oriente non è ancora tramontato il sole, come distinguerlo dal chiaro presente e dagli albori di domani?
Ecco, in tal caso non vi sono esperti, non vi sono veggenti: se fossero così efficaci nella loro visione del futuro, basterebbero loro, non servirebbe la testimonianza del passato a guidare i nostri passi, non occorrerebbe conservare nulla. Scartare oggetti o opere a così breve tempo dal tramonto della loro vita attiva è gesto che, tramite il giudizio, necessariamente porta con se una pre-visione del loro destino e valore futuro. Chi scarta compie consapevolmente un gesto che i più fanno distrattamente: condannare o salvare, perpetuare o destinare all’oblio. Una responsabilità grave e leggera, perché non esiste criterio assoluto, manuale o regola.

Il caso, giudice inconsapevole, le guerre, le calamità nel tempo solitamente compiono il giudizio, ma quale criterio resta per l’esperto? il gusto, l’intuizione, la particolare sensibilità o il calcolo economico. Ad esempio si salva ciò che è differente, singolare: la parola detta una sola volta, l’hapax legomenon, la via non battuta, la traccia accennata e non seguita. La visione non compresa, anche il fallimento clamoroso: l’errore, la mostruosità, l’aborto. Oppure, all’opposto, la strada battuta, la fontana di piazza, l’oggetto che tutti hanno usato, “che ha fatto la storia”, in tutte le varianti e i colori. Altri seguiranno il loro specifico, particolare, settario punto di vista, fino alla vendetta della damnatio memoriae, la costosa operazione di cancellazione dal futuro, la rimozione. Altri si chiedranno: quanto è costato? E tireranno una riga sul valore attualizzato: la linea di galleggiamento sotto la quale sommergere, sopra la quale salvare.

Condannare e salvare. Io condanno, tu salvi: tra cent’anni vedremo quale, tra il mio e il tuo oriente, è servito ai passi di qualche altro uomo.

ecofilia · 2007-05-22 by mmzz

Ecologia ed economia condividono la stessa radice: eco- ovvero oikos, “casa”. La prima, una “-logia” ovvero un discorso sulla casa, sull’ambiente, sul contesto vitale. La seconda, una “-nomia”, ovvero una scienza sulla conduzione della casa.
Fino a ieri, le due sono state “separate in casa”. La stessa casa, la terra, abitata da chi la conduce e da chi riflette su come questo va fatto perché rimanga un ambiente vitale, cioè una casa e non un fabbrica o un altoforno nel quale cuocere tutti.
Le recenti evoluzioni delle due discipline forse ci porteranno a riflettere in modo non schizofrenico tra conduzione della vita domestica e mantenimento del suo ambiente.
Dovremo forse fondere economia ed ecologia in ecofilia, ovvero amore per la casa, disciplina che dovrà occuparsi di come comporre lo schizofrenico comportamento che abbiamo tenuto da qualche tempo fino ad ora: chi conduce la casa contro chi ne tutela l’integrità, e viceversa. Ammesso che non sia troppo tardi.

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Vita e sintesi di una Identità · 2007-04-20 by mmzz

In tutta la vita (vedi una congettura collegata)
procediamo nella sintesi successiva di una identità. Questo avviene attraverso l’osservazione che di noi fanno gli altri e la definizione di attributi che ci riguardano, l’obbedienza a dei codici piuttosto che altri, per scelta o per tradizione, con spirito di innovazione o di conservazione.

Non facciamo altro che definire, mantenere o tentare di correggere progressivamente, evento dopo evento, la nostra identità di tessitori di codice, fino a che ciò che resta di noi è proprio questa descrizione, epitaffio più o meno vivente in chi ci ha conosciuto.

Una identità è cosa complessa, sfumata, indefinita, rispecchia l’obbedienza e la disubbidienza a codici palesi i nascosti, l’appartenenza o il rifiuto di comunità e affetti, riporta le cicatrici di ferite lievi e profonde, ricorda i dubbi e i cambiamenti, i ripensamenti, rimorsi ed errori. Tutto questo non può stare in un cartiglio. Tuttavia ci affidiamo a definizioni sintetiche di identità: nazionalità, sesso, professione, stato civile, etnia, religione, appartenenza politica, abiti, censo, classe sociale. Palesiamo simboli di stato e vestiamo ideologie.

Tutto questo ci è indispensabile per costruire una identità, scrivere un messaggio che accompagni il nostro esistere, nel terrore che questo resti vuoto.

Ricompensa e sostituzione dei fini · 2007-04-18 by mmzz

lo studente, inizialmente motivato nel suo studio solo dall’apprendimento e dalla ricerca della conoscenza, alla fine studia solo al fine di superare l’esame. Non studierà di più di quanto serve, semmai di meno. Questo perché qualsiasi sforzo supplementare è inutile al fine del raggiungimento della ricompensa immediata, che è il più o meno brillante superamento dell’esame.

Il lavoratore, anche motivato nello svolgimento del suo lavoro, pur percependone l’importanza nel contesto di progetti più ampi dei compiti a lui assegnati, finisce per vedere come reale scopo del suo lavoro lo stipendio o la parcella. Raramente considera utile interessarsi ulteriormente: oltre allo sforzo in eccesso vi è il rischio che questo perturbi equilibri superiori ottenendone un danno. Come può capitare allo studente che per approfondire di molto un fatto ne tralascia un poco un’altro che però gli verrà chiesto all’esame.

L’attività lavorativa, di studio, e forse anche affettiva e familiare, viene frammentata, ridotta a moduli al termine dei quali è previsa una gratificazione se questa viene svolta correttamente: lo stipendio, il voto, il regalo. La fine dell’attività, segnata dalla gratificazione, viene progressivamente a sostituirsi al fine originario e complessivo. Ho il sospetto che la sostituzione del fine originario capiti soprattuto ove alto (e difficile da raggiungere) è l’obiettivo iniziale oppure molto gratificanti le ricompense. Il politico viene gratificato dalle elezioni e dal maneggiare il potere, che più che fini sarebbero mezzi per realizzare i fini originari, Tutte le figure apicali finiscono forse per perseguire come fine il prestigio che del loro ruolo dovrebbe piuttosto essere la remunerazione.

Sul piano temporale la frammentazione scandita da periodiche remunerazioni fa perdere di vista un fine complessivo: studiare e lavorare per definire una identità, perseguire uno scopo, condividere un fine con una comunità, alimentare un progetto di vasto respiro, L’agire viene parte di una routine in cui la ricompensa segna il concludersi di una attività che cessa di essere parte organica di un’azione complessiva.

Questo comporta sul piano funzionale una importante conseguenza: l’abitudine a prendere parte ad attività pur non cogliendone il senso complessivo, l’organicità, o pur non condividendone (non potendoli nemmeno scorgere) i fini, La preoccupazione si sposta dal fine dell’attività alla fine della stessa per la parte che compete. Una volta perso di vista il fine, l’impegno va misurato non in base a questo nel suo complesso, ma del raggiungimento della ricompensa alla fine dell’attività: superare un esame senza eccedere nello studio; lavorare in vista del mantenimento del lavoro, vincere ancora le elezioni, eccetera.

Resta da capire a questo punto chi si occupa più dei fini originari.

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Karl Polanyi · 2007-04-01 by mmzz

Che bella scoperta trovare questo studioso, economista autodidatta, dalla vita tormentata e appassionata , che dice, sin dal 1944, cose che cercavo:
Dal cap. 4 di The great Trasformation

Nella sua critica alla centralità dell’economia di mercato che ha disincarnato l’economia dalla società, analizza le economie non di mercato e spiega come queste siano sufficienti per giustificare lo sviluppo dell’economia fino all’avvento della grande trasformazione. Userò alcuni passi per accompagnare una riflessione sulle nuove economie della peer production (termine che non mi piace molto; è dovuto a Benkler, che però lo ha spiegato assai bene in The Wealth of Networks)
all’interno della quale si possono ricomprendere free software, wikipedia, social bookmarking, alcune attività distribuite in rete e molto altro che vederemo (imho) sempre più prendere piede.

The role played by markets in the internal economy of the various countries it will appear, was insignificant up to recent times and the changeover to an economy dominated by the market pattern will stand out all the more clearly.

Appoggiandosi agli studi (allora) recenti di antropologia sulle isole Trobriand della Melanesia Occidentale e agli studi storici (Mesopotamia, Grecia) Polanyi identifica vari meccanismi di mercato, e riassume le loro principali caratteristiche. Il tratto caratteristico comune è la compenetrazione tra economia e società, di cui l’economia è un aspetto, e con cui contribuisce a fornire l’identità individuale e sociale.
Questo tratto identitario già ci avvicina alla peer production, che contribuisce alla formazione dell’identità individuale come e forse più di quella produzione industriale. Infatti nella seconda, con un meccanismo che Marx ha ben chiarito, l’artifatto divenuto merce perde ogni contatto con chi lo ha prodotto. Nel free software invece, come ho cercato di spiegare in Enabling Environments (ma più nella versione che devo ancora correggere in inglese), il prodotto affonda e si identifica con tutto il contesto della sua produzione: storia, relazioni umane, modifiche.

The outstanding discovery of recent historical and anthropological research is that man’s economy, as a rule, is submerged in his social relationships. He does not act so as to safeguard his individual interest in the possession of material goods; he acts so as to safeguard his social standing, his social claims, his social assets.

In questa visione socio-economica principio del il guadagno è assente, mentre vigono due criteri che garantiscono produzione e distribuzione, cioè la reciprocità e la redistribuzione. La redistribuzione è divenuta, con la riproduzione digitale, un non-problema. La reciprocità è, suppongo (ma bisognerebbe fare qualche ricerca), il principio alla base della disponibilità a produrre senza ricompensa. La reciprocità nel contesto culturale e’ garantita dal copyright e dalle licenze che ne tutelano la non appropriabilità da parte di soggetti che non rispettino le intenzioni del produttore.

??For it is on this one negative point that modern ethnographers agree: the absence of the motive of gain; the absence of the principle of laboring for remuneration; the absence of the principle of least effort; and, especially, the absence of any separate and distinct institution based on economic motives. But how, then, is order in production and distribution ensured? The answer is provided in the main by two principles of behavior not primarily associated with economics: reciprocity, and redistribution.??

L’efficacia del principio redistributivo identifica ruoli politici e distribuzione del lavoro. Questo nella peer production avviene in modo assi diverso dalla produzione tradizionale e industriale, a causa dell’automazione e della replicabilità. Tuttavia possiamo identificare dei gangli di smistamento delle informazioni e dei beni, e dei repository ove questi vengono memorizzati. Il ruolo di motori di ricerca come porte di accesso a questi beni è una possibile lettura del loro potere (e ricchezza). La reciprocità ha a che fare con la reputazione e il ruolo sociale, di cui ho già detto.

The sustenance of the family – the female and the children – is the obligation of matrilineal relatives. The male, who provides for his sister, and her family by delivering the finest specimens of his crop, will mainly earn credit due to his good behavior, but will reap little immediate material benefit in exchange; if he is slack, it is first and foremost his reputation that will suffer. It is for the benefit of his wife and her children that the principle of reciprocity will work, and thus compensate him economically for his acts of civic virtue. Ceremonial display of food both in his own garden and before the recipient’s storehouse will ensure that the high quality of his gardening be known to all. It is apparent that the economy of garden and household here forms part of the social relations connected with good husbandry and fine citizenship. The broad principle of reciprocity helps to safeguard both production and family sustenance. The principle of redistribution is no less effective. A substantial part of all the produce of the island is delivered by the village headmen to the chief who keeps it in storage. But as all communal activity centers around the feasts, dances, and other occasions when the islanders entertain one another as well as their neighbors from other islands (at which the results of long distance trading are handed out, gifts are given and reciprocated according to the rules of etiquette, and the chief distributes the customary presents to all), the overwhelming importance of the storage system becomes apparent. Economically, it is an essential part of the existing system of division of labor, of foreign trading, of taxation for public purposes, of defense provisions. But these functions of an economic system proper are completely absorbed by the intensely vivid experiences which offer superabundant non-economic motivation for every act performed in the frame of the system as a whole.

L’efficacia per così dire automatica del meccanismo deriva dalla sua capacità di riduzione dei costi di transazione. Questo ricorda il lavoro di Benkler (2002), che, partendo dalle osservazioni di Coase sulla natura dell’impresa e la sua efficacia in quanto mezzo migliore di ridurre i costi di transazione, applica alla peer production questo stesso principio tenendo conto delle nuove possibilità offerte dalla rete. Conclude che grazie alla rete, la peer production è spesso più efficiente dell’impresa nel minimizzare i costi di transazione, Cioè riscopre quello che disse Polanyi nel 44:

Reciprocity and redistribution are able to ensure the working of an economic system without the help of written records and elaborate administration only because the organization of the societies in question meets the requirements of such a solution with the help of patterns such as symmetry and centricity.

Polanyi cita esplicitamente Aristotele, come face Marx nel Capitale, e
mi viene il dubbio che lo faccia di proposito, per evidenziarne un errore.

The third principle, which was destined to play a big role in history and which we will call the principle of householding, consists in production for one’s own use. The Greeks called it oeconomia, the etymon of the word “economy.” As far as ethnographical records are concerned, we should not assume that production for a person’s or group’s own sake is more ancient than reciprocity or redistribution.

La produzione culturale personale è scarsamente soggetta a mercificazione, anche se è possibile discutere se questo possa essere detto in un’ottica strettamente marxiana. Uno dei meccanismi tipici della peer production (come questo blog) è che un individuo produce per se, e accetta che altri intervengano sul prodotto perchè ritiene che la collettività, incluso se stesso, possano averne un giovamento. Data la duplicabilità e l’impossibilità di vedersi depauperato di qualcosa (grazie al© e alle licenze), ha solo da guadagnarci nel condividere e nel veder aumentare il suo prodotto. La distinzione aristotelica e poi marxiana tra beni d’uso e beni di scambio viene ripresa, ma senza l’esclusività che vi vede Marx, per il quale nel momento in cui entra in gioco la logica dello scambio, questa vi permane indefinitamente Dal momento che le cose sono una volta diventate merci nella vita comune col forestiero [il mercante], esse lo divengono ugualmente per contracolpo nella vita comune interna (Capitale, p.57). Per Polanyi valor d’uso e di scambio coesistono, ed è solo il surplus che viene mercificato.

Aristotle insists on production for use as against production for gain as the essence of householding proper; yet accessory production for the market need not, he argues, destroy the self-sufficiency of the household as long as the cash crop would also otherwise be raised on the farm for sustenance, as cattle or grain; the sale of the surpluses need not destroy the basis of householding.

In sintesi, per Polanyi, molti meccanismi hanno consentito all’economia di tenere in vita le società, senza opporvisi, ma fornendo prodotti ed identità, integrandosi con la struttura sociale.
I tre principi di reciprocità, redistribuzione e familiarità all’interno di un gruppo sociale hanno retto l’economia senza dominare la società. Ora, dopo che uno di questi fattori ha perso ogni problematicità grazie alla replicabilità e redistribuibilità dei beni intellettuali digitali, e grazie ad una struttura normativa forte che tutela l’inenzione dell’autore (e non la “proprietà intellettuale”), torna a manifestarsi in modo esteso e rilevante una economia non di mercato, anche se per un insieme di beni ristretto.

Broadly, the proposition holds that all economic systems known to us up to the end of feudalism in Western Europe were organized either on the principles of reciprocity or redistribution, or housholding, or some combination of the three. These principles were institutionalized with the help of a social organization which, inter alia, made use of the patterns of symmetry, centricity, and autarchy. In this framework, the orderly production and distribution of goods was secured through a great variety of individual motives disciplined by general principles of behavior. Among these motives gain was not prominent. Custom and law, magic and religion co-operated in inducing the individual to comply with rules of behavior which, eventually, ensured his functioning in the economic system.

In conclusione, nell’ambito del pensiero di Polanyi, sembra sia possibile leggere il movimento free software e l’attuale nuova produzione di beni culturali condivisi come una reazione alla alienazione e deprivazione della mercificazione della produzione creativa, artistica e culturale.

Restano alcune cose da chiarire: – il ruolo dei tre “pattern” (symmetry, centricity, autarchy) – il rapporto conflittuale di Polanyi con la tecnologia, – come la nature della comunità incontra la nature dell’impresa (market e non-market) e che contanomazioni sono possibili.

CEI e società civile · 2007-04-01 by mmzz

Cerco di capire cosa è stato detto da Bertone a Genova in merito a dico eccetera: dal sito della diocesi di Genova vengo rimandato a quello dell’Avvenire che avrebbe “correttamente interpretato” quanto detto dal card. Bertone. Questa la parte saliente dell’ articolo, : «Certamente – [Bertone] ha spiegato ai presenti – se noi come cattolici usassimo solo ed esclusivamente delle ragioni di fede, giustamente saremmo fuori da questo dinamismo democratico che è il confronto delle ragioni. Confronto retto, onesto, il più possibile pacato e rispettoso, cosa che non sempre accade». Proprio per ovviare a tali obiezioni, ha esortato l’arcivescovo, «dobbiamo sempre più abituarci, ancorati alle ragioni della nostra fede, ed imparare ad usare le ragioni della ragione». In ballo, ha continuato il presule c‘è una «corretta antropologia». Il rischio è la mancanza di «un criterio oggettivo per giudicare il bene il male». Se il criterio è quello «dell’opinione pubblica generale», allora, «è difficile dire dei no». Perché, ha detto ancora l’arcivescovo, «dire di no all’incesto o al partito dei pedofili in Olanda se ci sono due libertà che si incontrano?». Contro queste «aberrazioni già presenti almeno come germogli iniziali», è difficile resistere, «se viene a cadere il criterio antropologico dell’etica che è anzitutto un dato di natura e non di cultura». Fine citazione.

La cosa preoccupante, più dell’improprio riferimento a pedofilia e incesto (visto che non vi sono, che io sappia nemmeno in Olanda, leggi che li consentono) è l’affiancamento del criterio oggettivo a quello del dinamismo democratico delle opposte ragioni.La mia preoccupazione è duplice:

  1. In primo luogo denuncia una visione della partecipazione sociale alla vita politica paternalista (o maternalista?) molto antica e altrettanto dura a morire, quella che fa dire a Giorgio primo ai sui sudditi ?? Liberty and Freedom consists in having the government of those laws by which their life and their goods may be most their own, ‘tis not so for having share in government, that is not pertaining to them.??, cioè la libertà non è cosa per tutti e non riguarda tutto. Ma appunto, dopo aver pronunciato tali sincere parole, ebbe la testa spiccata dal busto. Cosa propone in definitiva Bertone? Su questioni morali della massima importanza, deve decidere un soggetto diverso dal popolo sovrano nella sede democratica parlamentare. Alcune questioni sfuggono a chi non ha criteri di valutazione oggettivo e corretto secondo una antropologia e una visione del vero e del giusto che non è quella di tutti, ma di pochi.Questa visione denuncia in primo luogo una povertà di cultura democratica, anche se diffusa. In secondo luogo lo scendere in campo della CEI è l’ammissione di una sconfitta: se tali valori facessero parte del senso comune, non servirebbe combattere, come ideologia tra altre ideologie, nell’arena democratica. La formazione dei valori nella società civile forse potrebbe essere più efficace se fosse meno autoritativa.
  2. Il secondo motivo di preoccupazione è meno teorico e più pratico: il paradigma secondo cui una elite illuminata decide quale debba essere l’“antropologia” vera, giusta e dominante, potrebbe sopravvivere anche al cambiare degli equilibri di forze tra religioni. Un domani infatti potrebbero prevalere numericamente altre religioni o ideologie, basate anch’esse senz’altro su qualche altro inoppugnabile dato di natura e diversi criteri etico-antropologici forti, e che prescrivono, ad esempio, come valori il ruolo subordinato della donna nella società, o determinate regole alimentari, Lasciare che vi siano dei soggetti privilegiati significa lasciare fuori dalla società civile la discussione su quali siano i valori che meritano di essere difesi e quali invece possono essere aperti al dibattito parlamentare. Dovremmo forse che vi siano soggetti etici con maggior titolo di decidere senza discutere le opposte libertà? Ma proprio attorno a chi debbano essere questi soggetti abbiamo visto scorrere troppo sangue negli scorsi secoli e decenni, e proprio per questo abbiamo una costituzione e dei principi democratici. Questi sanciscono la separazione tra Stato e Chiesa. Le chiese di paesi ora democratici che sono state oppresse in passato prendono opportunamente posizioni molto ferme a favore di tale separazione. Si veda in proposito la recente dichiarazione della conferenza episcopale giapponese

Vedo confermato una volta di più che i vertici ecclesiastici italiani (che non voglio associare alla Chiesa delle parrocchie e delle missioni), più che dell’annuncio del Vangelo si preoccupano di affermare una Verità che sempre di meno viene condivisa dai fedeli, ormai abituati a trovare e vivere i propri valori anche nelle ambiguità della società secolarizzata. Il rischio per la Chiesa italiana è che le capiti quello che impedì a Giorgio primo di enunciare altre verità: che il suo capo si separi dal corpo.
La Chiesa potrebbe forse accettare fattivamente che la democrazia, il pluralismo, il dialogo sono componenti ineliminabili del mondo in cui viviamo, e che le Verità (anche con la maiuscola) si confrontano con altri valori. Certo, questo ha il costo di un certo relativismo che obbliga a discutere le proprie ragioni, a vederle messe su un piano di parità con altre; ma il vantaggio è una pace sociale che non siamo più disposti a esporre al rischio delle guerre di religione fra opposte Verità o ideologie.

Una modesta proposta: forse li vescovi italiani, su proposta dei sui fedeli, potrebbe fare un esperimento di democrazia per comprenderne meglio le dinamiche, e aprirsi essa stessa a qualche processo elettorale. Se non erro l’elezione del segretario della CEI, attualmente (unica al mondo) è di nomina papale. Perché non fidarsi dei vescovi italiani e lasciare che eleggano essi stessi democraticamente il proprio rappresentante?

divisione del lavoro nella società dell'informazione in rete · 2007-03-17 by mmzz

Come verrà ripartito il lavoro nella società della conoscenza?

Ciascuno ottiene nella società industriale la sua posizione sociale dal ruolo ricoperto nella catena della produzione di beni (merci).
Se si confermerà la tendenza che vediamo affermarsi in alcuni circoscritti ambiti, ma con significative innovazioni che si propongono anche ad altri contesti, la catena della produzione lineare lascerà il posto a una catena del valore della conoscenza non necessariamente così organizzata e definibile in ruoli precisi, non così univocamente determinata dalla sua relazione col mercato.

Alcune domande che possono porsi in questo contesto sono:

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Marx e la produzione-2.0 · 2007-03-10 by mmzz

Può essere difficile, almeno in prima battuta e a un profano come me, conciliare la teoria Marxiana del valore con la produzione collaborativa distribuita che vediamo affermarsi in questi tempi (“produzione-2.0”). Mi riferisco in particolare al free software, ma anche a Google, a Wikipedia, eccetera. Una molteplicità di soggetti producono qualcosa che è difficile classificare come merce secondo Marx, ma che ha indubbiamente un valore, sia d’uso che di scambio, e non lo fanno solo per sé, ma – consapevolmente – per una utilità sociale. Nelle prime pagine del Capitale (seguendo Aristotele), Marx dice: una cosa può essere un valor d’uso senza essere un valore di scambio. Basta per ciò che sia utile all’uomo senza derivare dal lavoro di lui. Tali sono l’aria, le praterie naturali, un suolo vergine, ecc. Una cosa può essere utile ed anche risultare dal lavoro dell’uomo senza essere merce. Chiunque col lavoro delle proprie mani provvede al soddisfacimento di propri bisogni, crea soltanto valori d’uso personali. Per produrre merci, egli deve produrre non solo valori d’uso in genere, ma valori d’uso per gli altri, valori d’uso sociali.
Poco oltre, parlando della divisione sociale del lavoro, precisa che essa è condizione necessaria ma non sufficiente perché vi sia produzione di merci. Fa l’esempio: nel vecchio comune indiano il lavoro è socialmente diviso, senza che per questo i prodotti divengano merci.

In definitiva, se vi è lavoro, questo può avere valor d’uso (esser utile) senza che abbia valore di scambio (condizione per essere definita merce) solo se il frutto del lavoro non è utile ad altri che colui (o coloro) che lo producono. La produzione sociale di beni privi di valore di scambio sembra essere prevista da Marx quando ammette che vi possa essere divisione del lavoro senza l’automatica qualificazione del prodotto in merce.

Poco oltre Marx spiega quale tipo di rapporto sociale debba instaurarsi per consentire che il bene sia fruito dalla collettività pur evitando che abbia luogo lo scambio e quindi la trasformazione del bene prodotto in merce. Posso azzardare che in questa categoria potrebbe ricadere il free software: viene prodotto per uso personale e distribuito ad una collettività che sempre per sé lo adatta, estende e modifica. Il valore aumenta con l’accumulazione di lavoro e la sua divisione, senza però che vi sia necessariamente scambio. Quello che cambia è l’estensione di della parola “personale” e di quanti individui cadono sotto il suo ombrello. In questo senso si potrebbe dire che non vi è scambio finché tra lavoratore e prodotto si mantiene questo rapporto di “uso personale”. Il rapporto sociale si instaura (costruzione di una community attorno al software-prodotto) perché possa essere mantenuto il vincolo personale e che questo non possa essere rotto dall’insorgere di un rapporto che sia esclusivamente di scambio. Ma questo pone un secondo problema, ovvero che attorno allo stesso prodotto possano sussistere rapporti che siano simultaneamente d’uso personale per una comunità e di scambio per un’altra.

Il prodotto nato per l’uso personale (anche da parte di una ampia comunità) sempre più vede l’interesse del mondo industriale e commerciale: ad esempio molte imprese pagano dei programmatori perché contribuiscano a scrivere, aggiornare ed accrescere dei prodotti software nati e manutenuti da una community di programmatori non salariati. Come è possibile che coesistano queste due realtà che per Marx sembrano essere ipso facto mutuamente esclusive nel momento in cui attorno al prodotto avviene uno scambio?
Nella comunità free software l’insorgere di rapporti di scambio attorno al prodotto è generalmente ammessa (dalle licenze) purché non vi sia la rottura di quello che prima ho chiamato “vincolo d’uso personale”. Cioè che rimanga possibile a chiunque, attraverso l’accesso al codice sorgente, di adattare il prodotto come se fosse (e infatti lo è ancora) d’uso personale. Questo doppio canale d’accesso al prodotto, sia per l’uso personale che per l’uso “di scambio” potrebbe consentire simultaneamente ad un bene di avere “valor d’uso personale” e valore di scambio.
Non è chiaro nemmeno che collocazione possa avere il lavoro domestico in questa classificazione. O si ammette all’interno della famiglia, oltre alla divisione del lavoro, anche lo scambio, o anche questo è privo di valore.
In parte risponde Marx stesso: Questa scissione del prodotto del lavoro in oggetto utile ed oggetto di valore si allarga nella pratica non appena lo scambio acquista sufficiente estensione ed importanza, perché tali oggetti utili siano prodotti con l’intento di scambiarli, sicché il carattere di valore di codesti oggetti è già preso in considerazione nel momento in cui vengono prodotti. Marx sembra sostituire la precedente categorica distinzione con un continuum tra uso e scambio sul quale il prodotto trova collocazione, a seconda di due parametri: l’uso prevalente e l’intenzione di chi lo produce. Questo può andar bene per spiegare il lavoro domestico, in cui il prodotto viene usato sotto gli occhi di chi lo produce e che può far valere la sua intenzione. Più difficile applicarlo a un prodotto (come software, audio, video,...) la cui agevole replicazione e distribuzione sottrae il possibile effettivo uso dal controllo di chi lo ha effettivamente prodotto. Per far valere l’intenzione esiste appunto la licenza d’uso, che nel caso del free software (ma anche delle licenze creative commons) ribadisce il possibile uso personale del bene, anche limitando il suo valore di scambio (clausole noncommercial). Quello che risulta impossibile determinare è l’uso prevalente, essendo la diffusione completamente sottratta dal controllo del produttore.

Ma veniamo a come questa coesistenza sia possibile. Iniziando a parlare di denaro, Marx scrive: Dal momento che un oggetto utile oltrepassa colla sua abbondanza i bisogni del suo produttore, esso cessa d’essere valore d’uso; presentandosi l’occasione, sarà utilizzato come valore di scambio. [...] Lo scambio delle merci inizia là dove le comunità finiscono [...]. Dal momento che le cose sono diventate merci nella vita comune del forestiero, esse lo divengono ugualmente per contraccolpo nella vita comune interna, [...] Con l’andare del tempo una parte almeno degli oggetti utili è prodotta col proposito dello scambio.
Ma ecco che nella nuova produzione (software free e media digitali) vi è una novità, anzi tre: La prima: il prodotto non è mai finito, ma continuamente aggiornato, accresciuto. Se non lo è, muore e sparisce. La seconda: chiunque, intervenendo sul prodotto per accrescerlo, può esserne il produttore, rinnovando il rapporto d’uso che vi è con il prodotto. La terza; l’accesso a tutti i prodotti costa come l’accesso a uno solo. Queste caratteristiche consentono che il confine della comunità venga continuamente portato avanti, dal momento che il forestiero, il nomade che scambia il prodotto, può esservi in qualsiasi momento incluso. Il prodotto si offre continuamente, non essendo cristallizzato una volta per tutte, all’intervento del lavoro concreto anche da parte di chi lo acquista attraverso scambio. Ad esempio chi paga un programmatore per produrre un determinato software e, esaurita con uno scambio la propria necessità, può offrirlo a una potenziale comunità d’uso, della quale entrerà egli stesso (se ritiene), che, anche senza ulteriori scambi, si prenderà cura del programma, per il valore d’uso che questo avrà per la comunità dei suoi utenti. In qualsiasi momento potranno esservi degli scambi, ma finché il programma sarà disponibile a una comunità d’uso, questi non riusciranno mai a mercificare definitivamente il prodotto.

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Creatività e mercato · 2007-03-05 by mmzz

L’impresa industriale è un modo per collegare creatività e capitale.

Finora la creativita’ e’ stata asservita al capitale. La scienza serve come mezzo per innovare e incrementare domanda e offerta.
A partire dalla rivoluzione dell’informazione, forse c‘è qualcosa di nuovo in questo rapporto.

Impresa 2.0 vedra’ forse la creativita’ al centro e il capitale al suo servizio. Questa impressione mi viene dal fatto che la conoscenza chiusa nell’impresa non e’ piu’ cosi’ efficace, e sono pochi i campi in cui una impresa e’ in grado di soddisfare le proprie esigenze di ricerca e sviluppo autonomamente. Questo lo dice Chesbrough con Open Innovation ma lo dice anche il free software, in cui il prodotto esiste fuori dall’impresa e l’impresa vi contribuisce in quanto costituisce una opportunita’ di profitto.

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Teoria di roto e corollario di mmzz sulla eterodeterminazione sociale della forma d'onda vitale · 2007-03-01 by mmzz

In fisica quantistica il collasso della forma d’onda esprime il fatto che i potenziali stati di un sistema siano stati ridotti, fino al limite ultimo di un singolo stato possibile.

La vita è, in da questo punto di vista, un lento collasso di una forma
d’onda che rappresenta tutti i possibili stati di una persona. All’atto del concepimento il mescolarsi del DNA di uovo e spermatozoo già mette una bella ipoteca sul futuro di una persona e ogni evento successivo, fino alla morte, riduce sempre più i possibili stati in cui il sistema/persona si potrà trovare in futuro, Fino al momento della morte, in cui tutto il futuro si riduce a un solo possibile esito.

Il collasso della forma d’onda, almeno nella sua formulazione classica che contempla l’uso di felini, deriva dall’osservazione. La forma collassa quando viene osservata. Mentre siamo abituati a pensare che le nostre libere scelte determinano il nostro futuro e l’espandersi o restringersi delle possibilità, in realtà il mondo ci “osserva” e successivamente ci determina: quando, dove, da chi nasciamo, con che sesso, con che carattere e dotazione intellettuale e di salute, la gente che incontriamo, i soldi che abbiamo a disposizione, le scuole e gli insegnanti, sono interventi successivi del mondo che progressivamente restringe l’ampiezza di ciò che siamo in potenza e schiaccia tutto verso una realizzazione di fatto.

Le vere scelte in questo modo sono veramente poche, e sono i
casi in cui tipicamente getti una monetina. Il resto è determinato in primo luogo dalle leggi fisiche, poi dalle possibilità oggettive, e infine dall’osservazione cui siamo costantemente soggetti da parte dell’ambiente, che “interrogandoci” su cosa siamo ne ottiene una risposta che fa progressivamente collassare la forma d’onda. Ad esempio la domanda “che cosa vuoi fare da grande?” già ci aiuta a entrare in quest’ottica. La scelta della scuola, lo sguardo di una ragazza, i discorsi deliranti di alcuni amici (ogni riferimento e’ puramente casuale) sono altrettante “osservazioni” dell’ambiente che determinano i nostri atti futuri e relative conseguenze in modo più o meno prevedibile. Se non vi fosse questa “osservazione” che interrogandoci determina la nostra identità potremmo essere molto più liberi, non identificandoci necessariamente con una specifica attività lavorativa, nazionalità, fede, sesso. Beh, magari quello lasciamolo stare :-)

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