il sogno della società apofatica · 2020-11-24 by mmzz
Alla radice dell’essere umani, e forse a differenziarci dagli altri animali sta l’estensione e l’efficacia della nostra capacità di previsione. Unita alla parola e all’uso estensivo di strumenti fa ciò che siamo, nel bene e nel male.
Come specie siamo caratterizzati dalla tensione costante alla previsione, al proiettare un’esperienza dell’essere vivi in una dimensione temporale futura, e dalla memoria, che ci lega costantemente alle esperienze passate.
Da queste deriviamo quanto ci serve a prevedere quanto ci capiterà in futuro.
Queste esperienze della coscienza sono forse una evoluzione del sogno, in cui l’inconscio esplora scenari, elabora esperienze, le proietta in una percezione “simulata” dall’interno.
Ma la previsione può avere due destini, uno al servizio del /desiderio/, l’altro al servizio della /paura/. Da una parte prevediamo eventi affinché accadano, dall’altra li prevediamo perché non accadano. La spinta è o libidica o ansiogena.
Dove investiamo la nostra intelligenza, la nostra capacità di controllo? In quale dei due destini?
Come società, oltre che come individui, siamo passati a temere più che desiderare.
Alcune generazioni precedenti alla nostra, fino agli anni ’90, si sono impegnate a desiderare e soddisfare appetiti formidabili (non necessariamente bassi, anzi!), ma dalla nostra generazione in poi prende maggior spazio la colpa e la paura che derivano dai danni che questi appetiti hanno creato: assieme alla vestigia del desiderio (prevalentemente nella forma del desiderio di consumo) si fa spazio la paura, il timore delle conseguenze di aver desiderato troppo e male.
Dalla minaccia nucleare in poi abbiamo vissuto nella paura e ad essa abbiamo asservito la nostra intelligenza, in essa abbiamo sognato; dalla distruzione industriale dell’ambiente in poi, viviamo nella colpa e nella paura della catastrofe ambientale, che dominerà i prossimi decenni.
Un segno di questa inversione è già stata registrata da Beck e Giddens con la “società del rischio”.
Ne vedo i segni in quella che chiamo /apofaticità/: come società ci definiamo più per quello che non siamo che per quello che siamo. La teologia apofatica definisce Dio al negativo, per quello che non si può dire di lui, e noi sempre di più cerchiamo di non essere qualcosa che ancora non sappiamo cos’è.
Da decenni siamo “post-“moderni: siamo a disagio nel definirci moderni ma non ancora sappiamo di essere qualcosa d’altro; i moderni sapevano bene cosa essere, cosa voler essere. Pensiamo di essere post-industriali, anche se questo significa il più delle volte che le fabbriche sono solo altrove.
Mangiamo, abitiamo, lavoriamo e comunichiamo con parole che definiscono l’importanza di ciò che non c’è, o meglio di ciò che è stato tolto: cibo no-ogm, senza-zucchero, senza-glutine, senza grassi, senza antiparassitari, senza antibiotici, senza coloranti; comunichiamo wire-less, paghiamo contact-less, ci ungiamo con creme senza parabeni, SLES, SLS e siliconi, tutte cose che non sappiamo nemmeno cosa siano; il lavoro è no-profit, non-governativo e paper-less, la fabbrica è lights-out, il trasporto driver-less, le nostre case sono passive.
Il nostro sogno, la nostra intelligenza, sono impegnati a demolire per paura il mondo che il desiderio di alcune generazioni ha creato…
Ma dov’è il sogno del nostro desiderio?
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