scarto · 2007-08-02 by mmzz
Sto assistendo e partecipando, mio malgrado, allo scarto della collezione di un museo. Il museo è quello didattico di storia dell’informatica, all’ex-macello di Padova. Lo scarto è quello imposto dal Comune di perché bisogna liberare i locali e basta. Questo mi innesca alcuni pensieri sulla valenza economica prima, sociale poi, di ciò che, come collettività, stiamo facendo: stiamo buttando ciò che è stato appositamente accantonato per essere conservato. Lo stiamo facendo lucidamente, coscientemente, deliberatamente. Mandiamo in discarica oggetti, manufatti che hanno decine di anni.
Se avessi scritto centinaia, di qualsiasi oggetto si tratti, la frase precedente avrebbe suscitato disagio in qualsiasi lettore. Ma solo decine di anni… beh, dipende da che manufatto si tratta, e da quante decine. Sono poche decine, e si tratta di manufatti tecnologici. Computer, strumenti biomedici, scientifici, roba che non serve più, ma che non ha ancora dignità di “pezzo da museo”. Valore d’uso nullo o quasi, valore di scambio nullo o quasi. Un limbo anche per Marx, un oggetto che, non essendo merce, non ha senso di esistere. Destino: la discarica.
Qualcuno, lungimirante, dice: più oggetti andranno in discarica, meno ne resteranno, più il valore dei pezzi residui aumenterà per effetto della scarsità. Economia elementare. Il tempo e lo scarto genereranno valore. Una operazione industriale come tante: più ne butto più i superstiti guadagnano valore: il costo di stockaggio non deve superare il valore finale.
Ma che tipo di valore, se di uso non si può parlare? Il valore di scambio? Culturale, bien sur! Qualcuno pagherà per vedere, studiare, confrontare, dissezionare, esplorare, collaudare, confrontare le vestigia del passato con … il presente.
Quindi si tratta di questo. La tecnologia passata (o qualsiasi altra opera di ingegno o creatività) serve ancora, ha un valore, se possiamo ancora confrontarla con quella presente, e necessariamente, futura. Perché il passato, ancora una volta, è l’origine, la scaturigine, l’oriente, ciò da cui nasce tutto, l’`_archè_. E, come dice la parola oriente, serve ad orientarsi: senza oriente, siamo dis_orientati_, persi, privi di destinazione. Sapere dove si trova l’origine, il punto fisso, il passo precedente, significa avere il riferimento per il prossimo passo. Avere il punto di riferimento sulla mappa, significa avere la mappa. Chi perde la traccia del proprio oriente perde la traccia del proprio occidente.Il passato è ad oriente del futuro.
Eliminare, scartare, condannare alla distruzione, aumenta il significato di ciò che resta, amplifica la portata del messaggio che porta. Scartare si, ma non troppo, non per estinguere. Ma nemmeno troppo poco, questo sistema vale solo per pochi superstiti esemplari, sazi di anni e carichi di responsabilità. Troppi sarebbero una folla vociante, una turba senza peso, ma nessuno significherebbe l’oblio, il nulla. No: deve restare il campione, l’esemplare, il punto fermo, la vera singolarità a rappresentare l’origine, il vero oriente. Ciò da cui veniamo, e a cui guardiamo per comprendere dove andiamo. Esemplare di inestimabile valore, non di uso (sarebbe lesa maestà) non si scambio monetario (sarebbe sacrilegio), ma valore simbolico di orientamento, valore culturale.
Ora chiediamoci: chi deve compiere lo scarto? Ovvio: l’Esperto. Colui che sa. Cosa può sapere? Discernere ciò che vale da ciò che non vale. Bene. Ma secondo quale criterio? Quello d’uso ovviamente no, Quello di scambio: forse. Ma come scartare oggetti recenti, di cui ancora non esiste un mercato, se il loro passato è ieri? Se sull’oriente non è ancora tramontato il sole, come distinguerlo dal chiaro presente e dagli albori di domani?
Ecco, in tal caso non vi sono esperti, non vi sono veggenti: se fossero così efficaci nella loro visione del futuro, basterebbero loro, non servirebbe la testimonianza del passato a guidare i nostri passi, non occorrerebbe conservare nulla. Scartare oggetti o opere a così breve tempo dal tramonto della loro vita attiva è gesto che, tramite il giudizio, necessariamente porta con se una pre-visione del loro destino e valore futuro. Chi scarta compie consapevolmente un gesto che i più fanno distrattamente: condannare o salvare, perpetuare o destinare all’oblio. Una responsabilità grave e leggera, perché non esiste criterio assoluto, manuale o regola.
Il caso, giudice inconsapevole, le guerre, le calamità nel tempo solitamente compiono il giudizio, ma quale criterio resta per l’esperto? il gusto, l’intuizione, la particolare sensibilità o il calcolo economico. Ad esempio si salva ciò che è differente, singolare: la parola detta una sola volta, l’hapax legomenon, la via non battuta, la traccia accennata e non seguita. La visione non compresa, anche il fallimento clamoroso: l’errore, la mostruosità, l’aborto. Oppure, all’opposto, la strada battuta, la fontana di piazza, l’oggetto che tutti hanno usato, “che ha fatto la storia”, in tutte le varianti e i colori. Altri seguiranno il loro specifico, particolare, settario punto di vista, fino alla vendetta della damnatio memoriae, la costosa operazione di cancellazione dal futuro, la rimozione. Altri si chiedranno: quanto è costato? E tireranno una riga sul valore attualizzato: la linea di galleggiamento sotto la quale sommergere, sopra la quale salvare.
Condannare e salvare. Io condanno, tu salvi: tra cent’anni vedremo quale, tra il mio e il tuo oriente, è servito ai passi di qualche altro uomo.