scetticismo e scetticismi · 2008-10-24 by mmzz
Un approccio scettico dogmatico, oltre che inconsistente internamente (ed essere anche una fastidiosa posa), può portare facilmente all’identificazione tra “posse”, il potere come possibilità tecnica, e il “licere”, la possibilità legittima, e quindi alle posizioni di Trasimaco (giusto è ciò che è vantaggioso per il più forte), ma —mi pare— anche a quelle di Shmitt sullo stato di eccezione e a Strauss.
Tuttavia anche le posizioni non scettiche che postulano l’esistenza di una verità necessaria conoscibile non sono immuni da problemi. Una teoria della verità forte, formale, che comprenda in se’ il concetto di verità va anch’essa incontro a paradossi, come ha posto in evidenza Tarsky. Pur senza abbordare le intricatezze delle dimostrazioni tarskiane (che non sono nemmeno del tutto certo di comprendere), per porre i termini della questione basta il solo tentativo di asserire la verità/falsità di un enunciato come “questo enunciato è falso”.
Il procedimento che applichiamo a «E’ vero/falso che “X”» e’ quello di considerare prima quanto affermato nelle virgolette (X), considerarne la validità, ed in seguito applicarvi il criterio di verità o falsità. «E’ vero che “la temperatura dell’aria è di 15 gradi”» impone di 1) registrare quanto X afferma 2) confrontarlo alla misura della temperatura esterna mediante un termometro. Le operazioni sono due, una di verifica formale dell’enunciato X, e la seconda di applicazione dello stesso al mondo sensibile o alla nostra esperienza, memoria, capacità di previsione, ecc. in modo da poter esprimere un giudizio i verità o falsità, cioè una verificazione o validazione.
Se “X” e’ “questo enunciato è falso” sulle prime non ci sembra accada nulla di strano. La frase X e’ ben formata, e’ comprensibile. Quando cerchiamo di coglierne il senso, ci accorgiamo però che qualcosa non funziona: la parola “questo” nell’enunciato si riferisce a X stesso, c‘è autoreferenzialità e questo disturba. Poi passiamo a valutare se X è “vero” o è “falso”, ed entriamo in un anello senza fine di senso (ricorsione), che poi ci porta a sospendere l’attività perché la ricerca si avvita su se stessa senza alcun risultato: se X e’ vero allora è falso, e se X è falso allora è vero. Se `e vero che “questo enunciato è falso” allora non può esserlo e quindi «E’ falso che questo enunciato è falso”», ma in tal caso esso è vero. Dopo un paio di passaggi non serve più procedere e occorre concludere che l’enunciato è indecidibile,
Dietro al termine “verità” si nasconde dunque sia un criterio di “validità” interna, formale, logica, necessaria ma limitata alla formulazione degli enunciati, sia un processo che più propriamente dovrebbe chiamarsi “validazione” o “verificazione” che parte dell’enunciato e si riferisce al mondo sensibile, all’esperienza o alla memoria. Il passaggio dall’enunciazione formale alla percezione sensibile introduce necessariamente un elemento soggettivo che tende a erodere se non a minare l’esperibilità collettiva di una verità unica e necessaria. Leggendo in senso transitivo il termine “verificazione”, non si puo’ non notare che il suo reciproco e’ “verum esse ipsum factum” (Vico).
Questa constatazione può portare alla scelta di tacere sul secondo passaggio, quello della verificazione, fintanto che non sia possibile concordare un criterio di verità con l’interlocutore, o sancire l’impossibilita’ di raggiungerne uno. Questa scelta, come ad esempio la tratteggia Roland Barthes in “Le Neutre”, rispecchia uno scetticismo né dogmatico né funzionale al controllo sociale, ma al contrario teso alla ricerca e alla riflessione, nel pieno rispetto degli altri e della radice skep-.
Il tempo globalizzato della crisi finanziaria e il rovesciamento del genitivo · 2008-10-12 by mmzz
Nonostante il disagio che talvolta provo confrontandomi con la semantica marxista (sia perché non la conosco abbastanza, sia perché ha l’ineluttabilità spietata di un sistema chiuso che tutto spiega e nulla eccezione ammette), non posso non apprezzare alcuni frammenti di Guy Debord ( La société du Spectacle , III ed. francese, 1992): mi paiono significativi specie alla luce delle recenti vicende sulla crisi finanziaria globale. In estrema sintesi ecco quanto questi tre frammenti rappresentano:
Il tempo ciclico, proprio della produzione agricola, viene stravolto dalla produzione capitalistica e (n.144) rafforzato dal telos cristiano e dal concetto di progresso. Il tempo viene mutato in un tempo lineare ed irreversibile la cui freccia è quella della produzione economica. Mentre la storia nel tempo ciclico era guidata dalla classe dominante in un quadro di riferimento dato e il cui mutamento era limitato dalla cornice dalla tradizione, invece nel tempo irreversibile, per le esigenze della trasformazione del capitale, muta in modo radicale coinvolgendo natura e società, trascinando con se in modo implacabile gli individui.
Per Debord questa trasformazione è globale. La globalizzazione comporta la riunificazione non solo dei mercati ma del tempo e dei ritmi: la giornata è quella del mercato mondiale, ovunque e per tutti, e la Storia “non canta più gli uomini e le loro armi, ma le merci e le loro passioni”,
Mi pare di trovare conferma di quanto D. pensava nella rappresentazione che in questi giorni ci offrono i mercati, le imprese, la politica internazionale: il propagarsi —nell’eterno giorno delle piazze di borsa— dell’onda delle emozioni che lo spettacolo produce, le rappresentazioni sulle scene minori con attori che inducono nel pubblico (pagante) panico o fiducia, convinti come sono di recitare in una commedia o in una tragedia, il tutto sulla pelle di gente che spesso fatica a “recitare” una vita decente secondo un copione scritto da altri.
Un ulteriore commento nasce da quello che D. chiama “le renversement du génitif” (il rovesciamento del genitivo, n.206). Lui lo applica —come metodo— alla tecnica mediatica del detournement per smascherare la menzogna dello spettacolo, ma il significato è più profondo: ciò che possiedi a sua volta ti possiede. Se le merci che produciamo e possediamo sono il fulcro attorno al quale il nostro mondo gira, non possiamo non esserne a nostra volta posseduti (e in qualche misura a nostra volta prodotti), e girare con esse.
E’ forse perfino possibile abbozzare una indagine di questa relazione di rovesciamento del genitivo: la relazione mia con l’oggetto costituisce un tutto di ordine superiore (una terzietà Peirceiana) che comporta una costruzione in cui io stesso posso essere simmetricamente agito dall’oggetto così come esso è agito da me. Un esempio significativo mi pare quello che Bernanos faceva riferendosi al soldato: nell’uomo col mitra […], l’accessorio non e’ il mitra ma e’ l’uomo. L’uomo di cui parlo e’ al servizio del mitra, e non già il mitra al servizio dell’uomo; non è “l’uomo col mitra” ma “il mitra con l’uomo”. Il disagio che provo nei confronti della teoria marxista è proprio la sua visione costantemente rovesciata del genitivo: noi crediamo di controllare lavoro, economia, mercati, rapporti di classe, ma ne siamo invece sistematicamente dominati. Tuttavia gli eventi recenti ne darebbero ampia testimonianza: la sfera sociale e politica non domina il mercato liberale finanziario nel 2000 come non dominava quello liberale delle merci negli anni ’30, ma al contrario ne è dominata e così coloro che investono in azioni ne sono investiti. Si potrebbe perfino leggere una regolarità: ogni trasformazione —specie se brusca— dei rapporti tra società e l’“oggetto” mercato , per via delle varie forme prese dal capitale e dalle forme di produzione (da agraria a industriale liberale, a keynesiana, a globalizzata-finanziaria e ora —forse— a post-finanziaria) comporta una re-azione violenta sulla società stessa da parte di quello che dovrebbe essere un oggetto da essa agito.
Ma ecco i tre frammenti:
Le mouvement constant de monopolisation de la vie historique par l’État de la monarchie absolue, forme de transition vers la complète domination de la classe bourgeoise, fait paraître dans sa vérité ce qu’est le nouveau temps irréversible de la bourgeoisie. C’est au temps du travail, pour la première fois affranchi du cyclique, que la bourgeoisie est liée. Le travail est devenu, avec la bourgeoisie, travail qui transforme les conditions historiques. La bourgeoisie est la première classe dominante pour qui le travail est une valeur. Et la bourgeoisie qui supprime tout privilège, qui ne reconnaît aucune valeur qui ne découle de l’exploitation du travail, a justement identifié au travail sa propre valeur comme classe dominante, et fait du progrès du travail son propre progrès. La classe qui accumule les marchandises et le capital modifie continuellement la nature en modifiant le travail lui-même, en déchaînant sa productivité. n.140
??La victoire de la bourgeoisie est la victoire du temps profondément historique, parce qu’il est le temps de la production économique qui transforme la société, en permanence et de fond en comble. Aussi longtemps que la production agraire demeure le travail principal, le temps cyclique qui demeure présent au fond de la société nourrit les forces coalisées de la tradition, qui vont freiner le mouvement.
Mais le temps irréversible de l’économie bourgeoise extirpe ces survivances dans toute l’étendue du monde. L’histoire qui était apparue jusque-là comme le seul mouvement des individus de la classe dominante, et donc écrite comme histoire événementielle, est maintenant comprise comme le mouvement général, et dans ce mouvement sévère les individus sont sacrifiés.?? n.141
Avec le développement du capitalisme, le temps irréversible est unifié mondialement. L’histoire universelle devient une réalité, car le monde entier est rassemblé sous le développement de ce temps. Mais cette histoire qui partout à la fois est la même, n’est encore que le refus intra-historique de l’histoire. C’est le temps de la production économique, découpé en fragments abstraits égaux, qui se manifeste sur toute la planète comme le même jour. Le temps irréversible unifié est celui du marché mondial, et corollairement du spectacle mondial. n.145
Shannon, Bertalanffy e i sistemi codificati. · 2008-10-05 by mmzz
i primi tentativi di contatto avvennero attraverso apparecchi elettronici che trasmettevano nella massa della gelatina vivente gli impulsi emessi dagli interlocutori. L’oceano vi prese parte attiva, modificando gli apparecchi stessi – S.Lem Solaris
Su teoria della comunicazione, sistemi, adattamento, codice. Cerco di integrare il mio pensiero sul codice nelle teorie dei sistemi (Bertalanffy) e della comunicazione (Shannon).
Comunicazione: Shannon
L’articolo di Shannon A mathematical theory of communication (1948) pone le basi della teoria della comunicazione in termini sistemici e matematici. A p.15, al capiltolo “Representation of the encoding and decoding operations” scrive:
We have yet to represent mathematically the operations performed by the transmitter and receiver in encoding and decoding the information. Either of these will be called a discrete transducer. The input to the transducer is a sequence of input symbols and its output a sequence of output symbols. The transducer may have an internal memory so that its output depends not only on the present input symbol but also on the past history. We assume that the internal memory is finite, i.e., there exist a finite number m of possible states of the transducer and that its output is a function of the present state and the present input symbol. The next state will be a second function of these two quantities.
In formule, Shannon propone questa semplice traduzione:
y n = ƒ (x n , α n)
α n+1 = g ( x n , α n)
where
x n is the n th input symbol,
α n is the state of the transducer when the n th input symbol is introduced,
y n is the output symbol (or sequence of output symbols) produced when x n is introduced if the state is α n.
In una parola, l’output è determinato da uno stato, α , dall’input, e da una funzione ƒ .Lo stato α a sua volta dipende da una funzione g che influenza lo stato successivo di α in base all’input stesso. Cioè l’input determina sia l’output in baso allo stato corrente, sia lo stato futuro del sistema. Il sistema può essere più o meno complesso in base alla profondità della memoria, e potrà divenire anche ampiamente imprevedibile se le funzioni ƒ e g sono complesse. Il problema qui in esame non è tanto complessità e libertà di un sistema, ma la sua capacità di adattarsi all’ambiente (resilienza) ed evolvere.
Shannon precisa che se il sistema in esame è composto, occorrerà prendere in considerazione più parametri oltre ad α , ad esempio β per un sistema il cui input sia l’output del primo ( cioè y n ). l’aumento dei componenti di un sistema complesso comporta l’aumento del numero dei parametri.
I sistemi aperti: von Berthalanffy
Questa precisazione è utile per situare come avviene la comunicazione in un sistema complesso, quali quelli aperti, di cui si occupa Ludwig von Bertalanffy nel suo celebre testo del 1968 General Systems Theory. Alcune definizioni:
- “a system can be defined as a complex of interacting elements” (p.55), (purtoppo non viene data nessuna definizione della complessità).
- “open system is defined as a system in exchange of matter with its environment, presenting import and export, building-up and breaking-down of its material components” (p.141)
I sistemi aperti, nei quali ricadono i sistemi viventi, sono differenti da quelli “meccanici”. Infatti
Processes occurring in machine-like strucures follow a fixed pathway. Therefore the final state will be changed if the initial conditions or the course of the process is altered. In contrast, the same final state, the same “goal”, may be reached fronm different initial conditions and in different pathways in organismic processes. (p.132). Questa proprietà degli organismi di raggiungere comunque, indipendentemente dalle condizioni iniziali, determinati stati (“steady states”), ben distanti dall’equilibro termondinamico con l’ambiente, viene chiamata da LvB “equifinality”. Questo stato “of high statistical improbability of order and organization” viene raggiunto e mantenuto attivamente dal sistema aperto indipendentemente dalle condizioni iniziali.
I sistemi complessi codificati
Se i sistemi complessi sono composti da componenti semplici che comunicano tra loro, come emerge il comportamento “equifinale”? Come conciliare il determinismo di Shannon per cui il sistema dipende da due funzioni (“comportamento” che trasforma input in output, e “memoria” che trasforma lo stato passato in quello futuro) e un parametro di “stato” α con l’ampio grado di libertà richiesto da un sistema aperto per raggiungere l’equifinalità? Ed inoltre come spiegare l’origine del sistema, il suo cambiamento, la capacità di ripararsi e adattarsi dinamicamente all’ambiente (resilienza) senza perdere quello “steady state” che ne determina l’integrità?
Occorre forse introdurre (almeno temporaneamente) il concetto di sistema codificato come complesso di elementi ordinati, il cui ordine ed interazione è determinato da un insieme di istruzioni detto un codice . A differenza di una funzione semplice, il codice
- consente una serie di azioni alternative (ma questo può farlo anche una funzione complessa)
- può essere alterato da codice (non ho conoscenza in matematica di funzioni che cambiano se stesse).
Credo che le funzioni di Shannon possano essere emendate (provvisoriamente) in questo modo per esprimere quanto succede in un sistema codificato, a differenza di un sistema meccanico.
y n , ƒ n+1 = ƒ n (x n , α n)
α n+1 , g n+1 = g n ( x n , α n)
In altre parole il comportamento del sistema non è determinato da funzioni fisse che si applicano ad argomenti variabili, quali input e “stato”, bensì nello “stato” variabile del sistema vanno incluse le funzioni stesse. L’input e il tempo possono alterare, attraverso l’ingresso di informazioni o materia, non solo l’output, non solo lo stato, ma il modo stesso in cui l’input si trasforma in output ed il sistema memorizza il proprio stato. In parole povere, il sistema codificato è in grado di acquisire dal proprio ambiente anche, oltre ai dati, le informazioni od istruzioni che determinano il proprio comportamento. L’ingresso di nuovo codice in un sistema codificato non ha come unico esito la sostituzione di determinati comportamenti con altri, nuovi, ma l’emersione di comportamenti inattesi determinati dall’interazione (ibridazione, incrocio, competizione) tra codici diversi all’interno del sistema.
Una versione meno provvisoria della precedente potrebbe avvalersi della formulazione del lambda calculus (A.Church) , la cui notazione e’ adatta a maneggiare funzioni ricorsive ed e’ piu’ vicina al concetto di algoritmo e programma che a quella di una funzione statica.
Esempi
Sistemi complessi, aperti e codificati sono non solo i sistemi viventi indicati da LvB, ma i sistemi sociali, organismi complessi come organizzazioni, in cui i comportamenti degli individui sono in funzione del comportamento di altri individui o di istruzioni precise che devono essere interpretate. Religioni, sistemi di credenze politiche, sistemi di leggi e norme e tutte le complessità regolate esplicitamente sono soggette a fenomeni di scambio di codice che determina o influenza il comportamento: il codice viene tramesso per imitazione o esplicita trasmissione (ordine), e può essere accolto sostituendone altro o essere rifiutato (rafforzando comportamenti opposti o “vaccinando” il sistema contro codici analoghi) oppure emendato, interpretato autonomamente o addirittura sovvertito in base allo stato del sistema che lo riceve.
In futuro vedremo sempre più un crescente numero di sistemi artificiali i cui comportamenti sono regolati da istruzioni che possono essere trasmesse o autonomamente acquisite dall’ambiente: robot o sistemi informatici addestrati a compiere scelte autonome in base alle condizioni in cui si trovano o ad apprendere per imitazione.
Critica
Tutto è un calcolatore? Appare evidente quanto questa impostazione tradisca una visione del tipo “tutto è un calcolatore”. Analogamente a quanto già determinato da precedenti rivoluzioni (“tutto è un meccanismo”, “tutto è un sistema termodinamico probabilistico”, “tutto è soggetto a selezione e mutazione”,“tutto è un sistema cibernetico”), anche la rivoluzione informatica pesa con le sue metafore. Tuttavia credo che questa visione possa anziché sostituirsi, aggiungersi ad altri paradigmi nella comprensione della regolazione dei fenomeni complessi.
Parlare di codice che agisce sui dati non re-introduce il dualismo mente-corpo? Ho già cercato di dimostrare come questa distinzione tra “dato” ed “istruzione” (come altri dualismi, come mente-corpo, hardware-software, processore-processo e forse anche legge universale-materia) sia del tutto fittizia, in quanto manifesta e rende esplicito un “di più” che emerge da una unica azione, evidenziando due aspetti (agente-cosa agita) distinguibili ma indissolubili di una sola realtà. Questa distinzione è utile ma in determinate condizioni superabile, in particolar modo ragionando attorno ai sistemi viventi, basati su DNA, in cui il codice è sia istruzione che dato sul quale l’istruzione agisce. Inoltre si tratta di una possibile visione analitica tra molte altre, alla quale siamo forse abituati dalla aristotelica distinzione tra forma-sostanza.
Mediterraneo · 2008-08-30 by mmzz
Sur un plateau désolé était posé un trou ligotè —
“su un piano desolato era posato un buco legato”: il buco legato è rappresentato da un gomitolo di spago nel libro “L’ombrelle en papier” dell’artista belga Jacques Louis Nyst (1977).
Lo storico François Braudel, nel testo da lui curato “Il Mediterraneo” (1985 Flammarion, 1987 Bompiani), dà del nostro mare la stessa idea: un abisso avaro, circondato da aride terre montagnose e da un altro mare, il deserto. Le terre che lo circondano sono “da conquistare”, popolate da società tradizionali nomadi o transumanti, fatte di uomini e donne “condannati senza remissione alla sobrietà”, centrate sulla coltura dell’olio e della vite, sempre in difetto di grano e pane.
Tuttavia questo vuoto che, prima ostacolo insormontabile, va sempre più restringendosi per l’accorciarsi dei tempi di percorrenza, lega insieme terre e popoli e li unisce per le origini comuni, per la lunga consuetudine al mercanteggiare, per il farsi guerra ed il migrare senza posa. Le sue sponde sono “luogo di elezione di civiltà adulte”, e per Braudel la civiltà è quella dotata di antichità e persistenza: Prima caratteristica dunque, le civiltà sono realtà di lunga, lunghissima durata. Seconda: sono saldamente aggrappate al loro spazio geografico. Certo, la più forte, la vittoriosa penetra spesso nelle più debole, la colonizza, vi installa i propri quartieri e le proprie postazioni di comando. A lungo termine però l’avventura va a finir male. […] La regola, ove si tratti di civiltà adulte e strutturate […] è comunemente il fallimento, anche se, ripetiamo, si verifica spesso con molta lentezza. In effetti qualsiasi civiltà affermata si sottomette soltanto in apparenza, e in tali occasioni acquista in genere maggiore coscienza di sé, arriva all’esasperazione e sviluppa un nazionalismo culturale intransigente (p.108)
Tra le caratteristiche contrapposte di queste civiltà, Jean Gaudemet (nel saggio “Il miracolo romano”) identifica quella (a mio avviso ancora non sopita) tra “popolo” e “istituzione”: Mentre il pensiero politico greco vede nella polis prima di tutto una comunità di uomini (quella ateniese è denominata ufficialmente con l’espressione “gli ateniesi”), Cicerone, da buon romano, la considera fondata sul diritto. La nozione di “res publica” […] risponde allo stesso concetto. […] E non si può negare che la res publica faccia pensare al popolo (populos, publicus). Anche in questo caso, però, come testimonia Cicerone (De re publica I 25 39), il popolo non è un semplice aggregato di individui, ma un gruppo unito “da un consenso giuridico e per la comune utilità” (p.171)
Il consenso giuridico si esprime in produzione di diritto, con conseguenze molto ampie fino ai giorni nostri, se non altro nei paesi di diritto scritto. La parola “codice” riassume efficacemente questo consenso: denota un comune modo di agire, un comportamento in fase. Sempre Gaudemet: Nel periodo che va dalla metà del II secolo al regno di Giustiniano (527-565) emerge innanzitutto, assieme ad una legislazione abbondante, l’apparizione, in alcune grandi città, di scuole di diritto, municipali o imperiali […]. Roma, Alessandria, Beirut e Costantinopoli attirano i futuri amministratori dell’impero. Un lustro particolare, rimasto celebre, assunse in questo senso Beirut nel V secolo. Un altro dato essenziale è la preoccupazione costante di rendere accessibile l’immensa mole di diritto […]. Nascono così tentativi privati di compilazione, che raccolgono elementi della legislazione imperiale e frammenti di testi dottrinali. Utilizzando il supporto materiale del codex , che tendeva a sostituirsi ai lunghi rotoli, le compilazioni di costituzioni imperiali ne assunsero il nome, destinato a singolare successo. (p.179) fino ai codici di Teodosio II e di Giustiniano e persistente nel “diritto romano” fino ai giorni nostri. Il codice come legge scritta, e la sua necessità in un contesto di vigenza vasto come quello dell’impero, forse deve supplire ad un codice interno, un comune comportamento, per il quale spesso è sufficiente la norma sociale, sovente trasmessa oralmente.
Il 1985, anno di pubblicazione della raccolta di saggi, conosceva già le migrazioni turistiche attuali da nord a sud, ma ignorava quelle delle nostre “carrette del mare”, da sud a nord.
Il saggio di Maurice Aymard, “Migrazioni” ripercorre lo spostamento di popoli attorno al nostro mare, senza dimenticare i 25 milioni di Italiani (metà della popolazione del 1960) partiti dal 1860 al 1970, né quelle degli invasori miliari che […] si trovarono di fronte alla necessità di venire patti con un passato tenace, di rispettare, se necessario in cambio di denaro, usi e credenze, di assimilare in seguito le élites locali. Ciò a meno di genocidi o di espulsioni totali, come accadde diverse volte con gli ebrei e con gli armeni. Aggiunge Aymard: Da un’estremità all’altra del Mediterraneo il nostro secolo [il XX] tende così a disfare, separare e distinguere quel che la storia aveva unito, giustapposto e fuso strettamente. Punto di arrivo di una lenta sedentarizzazione, ogni popolo di identifica in una nazione, in uno stato, in un territorio delimitato da fontiere. (p229) La riflessione non può che portare su questa identità, che si fonda su frontiere invece di fondarsi sul suo baricentro, il Mediterraneo, e sulla sua lenta filogenesi, derivante da fusione anche dolorosa con il vicino, il nemico, il concorrente, il socio in affari. Ma forse questa nuova “identità” deriva piuttosto dalla necessità di una identificazione da parte degli stati nazionali. Come ho già osservato nella lettura di Bauman l’identità nazionale prima che essere descritta viene prescritta.
Non varrebbe forse la pena di recuperare l’identità che unisce al posto di quella che separa? Una comunità, un aggregato di popoli, che forse oggi più che mai ha bisogno di una sua res publica, costruita da un consenso attorno al comune interesse e alla comune storia. Un po’ come il gomitolo di spago che forse tiene legato il vuoto, ma che senza questo vuoto non esisterebbe.
utilità e costo dello spam · 2008-08-29 by mmzz
In collegamento con le riflessioni già fatte sullo scarto e sulla sua utilità, sconfino nel mio ambito professionale con uno dei miei cavalli di battaglia (professionali) preferiti.
lo SPAM, quell’insieme di posta elettronica commerciale non richiesta e di virus, tentativi di phishing e altre diavolerie, ha certo una causa poco nobile: quella di far fare a noi, destinatari del messaggio si spam email, quello che non necessariamente vogliamo, cioè cedere parte del nostro denaro al mittente; sia volontariamente, acquistando repliche di orologi e pillole che rendono felici i nostri partner, oppure involontariamente, facendocelo rubare. I destinatari, sottoposti a questo attacco, possono difendersi cancellando i messaggi non desiderati prima di aprirli, cosa spesso difficile, o facendo fare questa operazione a programmi piuttosto sofisticati, che, basandosi sulle caratteristiche tipiche di spam e virus e sulle indicazioni che l’utente stesso dà loro, cercano di capire cosa è spam e cosa non lo è. Data la sofisticatezza dei programmi e il loro costante miglioramento, so spammer, ovvero il mittente, cercherà di produrre messaggi sempre più simili a messaggi autentici, personalizzandoli con il nome e la lingua del destinatario, o fingendo l’invio da parte di mittenti plausibili. Molto spesso però lo spam è grossolano e rudimentale. Se continua a essere inviato significa che qualcuno dei destinatari “abbocca” e “cede” parte del proprio denaro.
Questo è quanto si può dire dello spam a livello micro, cioè a livello di interazione tra soggetti individuali, ovvero lo spammer e il destinatario-vittima dello spam.
Guardando al fenomeno ad un livello più alto, cioè del comportamento aggregato di migliaia di spammer e di vittime, otteniamo un quadro piuttosto diverso: secondo una stima ottimistica, almeno il 75% di tutti gli scambi di posta elettronica vengono cestinati automaticamente prima di essere letti, dopo essere stati analizzati da programmi antispam e antivirus. Questi programmi, oltre a costare del denaro, impiegano risorse di calcolo, e quindi energetiche, non indifferenti. Tutti i costi sono sostenuti dal destinatario, visto che l’invio non costa praticamente nulla. Inviare spam è illegale in sempre più paesi al mondo.
Ma vi è un altro effetto, raramente considerato: questo traffico incessante e sostenuto costituisce un rumore di fondo che mai si estingue, indipendente dal traffico effettivo (il segnale) che occupa i collegamenti telematici. La presenza di rumore nel canale comunicativo, purchè non sia eccessivo, ha un vantaggio: dimostra che il canale è presente. Il rumore è così necessario che nei telefoni GSM è stato introdotto un rumore artificiale verso l’orecchio di due interlocutori quando nessuno dei due parla, per evitare che pensino che sia caduta la linea.
Si può facilmente obiettare che per stabilire se le linee telematiche sono funzionanti vi sono altri mezzi meno dispendiosi dello spam. E’ vero, ma mentre posso agevolmente verificare se sono o meno collegato al mio fornitore di connettività Internet, è molto più difficile pensare ad un sistema per capire se sono connesso al resto della rete. Con lo spam, questo problema è risolto: se ricevo spam, se percepisco il rumore di fondo della rete, significa che sono connesso. Un’altra fonte di rumore di fondo nel traffico della rete sono le richieste dei motori di ricerca verso i siti web, ma il volume è molto inferiore.
A livello macro, quindi, nonostante le noie che comporta, lo spam può avere una sua funzione. Peccato che avvenga a dei costi umani, economici ed energetici inaccettabilmente alti a livello micro, cioè per il destinatario.
Ancora su preda, cacciatore e sulla caccia semiotica. · 2008-08-19 by mmzz
Ryle scrive (p.192): Anche se un certo individuo […] si stesse momentaneamente concentrando sul problema dell’io, egli non è riuscito (e lo sa) a catturare più del lembo svolazzante di quello che sta inseguendo. La sua preda è il cacciatore. Questa riflessione sull’io (Ryle se n‘è accorto) pietrifica efficacemente un momento di una caccia infinita. Si collega bene a quanto ho pensato sul segno come caccia . Il motivo per cui è sempre necessario che via sia una closure, che Zeus operi una pietrificazione del segno, anche quando il segno non è rappresentato dalla parola “io”, è che il cacciatore non è mai completamente alieno dalla sua preda, e entrambi sono parte della stessa caccia. La relazione tra i due, il fatto di comporre una caccia insieme, li rende diversi dall’istante prima che la caccia iniziasse: sono parte della caccia, e la caccia è parrte di loro. Ciò è tanto più vero per il segno “io”, ma anche senza l’identità (“io”) tra significante e significato, azione e oggetto dell’azione (per non parlare dell’agente) si confondono, sono parte di un uno, come la coppia di guanti sono una terzità inscindibile dagli oggetti che vanno infilati alle mani e dall’azione di infilarli (atto che li definisce). Tuttavia Ryle acutamente indica che “io” in un solo segno denota cacciatore, preda, caccia.
Ryle, previsione e libero arbitrio · 2008-08-16 by mmzz
Forse un giorno i fisici risolveranno tutti i problemi della fisica: ma non tutte le questioni sono fisiche. Le leggi che i fisici hanno scoperto e che scopriranno possono governare (in un senso metaforico di questo verbo) tutto ciò che accade, ma non lo preordinano. Anzi esse non preordinano nulla di ciò che accade. Le leggi di natura non sono decreti.” p.73
E’ quanto sostengo: anche in un mondo completamente meccanicistico, anche se scienze esatte arrivassero a formulare leggi che descrivano completamente e senza contraddizioni il mondo fisico, questo non intaccherebbe molto la libertà di cui l’uomo gode (o crede di godere). Infatti una cosa è conoscere le cause (efficienti), e i meccanismi causali, una cosa diversa è prevedere: per togliere la “libertà” non basta conoscere i meccanismi causali, occorre, date le leggi e lo stato iniziale di un sistema, essere in grado di prevederne il comportamento. Fuori dai casi semplici, la complessità dei fenomeni (ad esempio quelli metereologici soggetti a processi caotici) li rendono difficilmente prevedibili, anche se noti.
Anche se determinato, resto libero finchè qualcuno non simula e descrive in anticipo, istante per istante, lo stato del il mio orizzonte di universo e me stesso in esso. Per sistemi complessi questo potrebbe richiedere tempi e risorse impossibili o paradossali (ad esempio per simulare un universo, è richiesto un altro universo).
Ryle però non segue questa strada. Preferisce sostenere la limitatezza del campo di applicazione delle scienze: La scoperta delle leggi fisiche non può escludere dal mondo la vita, la sensibilità, la finalità e l’intelligenza, così come le regole della grammatica non escludono dallo scrivere lo stile o la logica p.75 Non ritengo questa strategia molto efficace. In primo luogo si corre il rischio di cadere nello stesso errore che Ryle cerca di combattere: contrapporre vita e substrato fisico-biologico della vita, o grammatica e scrittura è un pò come contrapporre mente e corpo. Lo stile può esistere senza la grammatica o la vita senza i processi chimico-fisici alla base di quelli biologici? In secondo luogo questo tipo di “difesa della libertà” è, per così dire, casa per casa: le scienze fisico-meccaniche hanno oggi lasciato il posto a quelle biofisiche, e la “riduzione” delle terre incognite (quelle in cui per Ryle vige ancora la libertà) procede speditamente.
Tuttavia è vero che pur essendo tutto governato da leggi, non tutto è preordinato, ovvero prevedibile nel suo manifestarsi e svolgersi. Questo non perchè vi siano ambiti che sfuggono alle leggi, ma perchè queste appunto decretano che la previdibilità del mondo è limitata.
mente e corpo, hardware e software, dati e programmi: dualismi illusori · 2008-08-13 by mmzz
Gilbert Ryle, in Il concetto di mente, riflette e argomenta attorno al binomio mente/corpo. Alcune osservazioni contro la loro contrapposizione, benchè scritte nel 1949, sono adattissime al binomio hardware/software al quale siamo abituati oggi (e che spesso viene usato come analogia a quello mente/corpo).
Dice Ryle: Se la mia argomentazione funziona, ne deriveranno alcune conseguenza interessanti. Primo, si dissolverà la venerata contrapposizione tra mente e materia, ma questo non già in virtù dell’altrettanto venerata assimilazione della mente alla materia o della materia alla mente, bensì in modo completamente differente. Infatti si scoprirà che l’apparente contrapposizione tra mente e materia è illegittima proprio come lo sarebbe contrapporre “Tornò a casa in un fiume di lacrime” a “Tornò a casa in una portantina”. Ritenere che mente e materia siano opposte in maniera antitetica significa credere che si tratti di termini appartenenti al medesimo genere logico. Ne segue che tanto l’idealismo quanto il materialismo rispondono ad una domanda non appropriata. “Ridurre” il mondo materiale a stati e processi mentali, così come “ridurre” stati e processi mentali a stati e processi fisici, sono operazioni che si basano sull’assunzione che sia legittima la disgiunzione “O esistono menti o esistono corpi (ma non entrambi)”. Ma questo sarebbe come dire: “O ho comprato un guanto sinistro e un guanto desto, oppure ha comprato un paio di guanti (ma non entrambe le cose)” Il ragionamento mi pare estremamente adatto al dualismo hardware/software. Non sarebbe possibile riprodurre la dialettica idealista/materialista in ambito informatico: un computer è hardware oppure software? Non solo di solito l’uno prevede l’altro, ma il confine tra i due è labile, spostabile quasi sempre a piacere (e più per motivi di costi industriali che tecnici). Un altro dualismo che si presenta spesso è quello doti/programmi: i dati sono ciò su cui i programmi agiscono. In molti dei linguaggi evoluti (a partire da lisp) il confine si confonde, e non è più possibile parlare di dati contrapponendoli ai programmi. (Basta vedere le lezioni di Abelson e Sussman Structure and interpretation of computer programs)
In linea generale, mi pare che questi dualismi hanno una funzione dialettica, ovvero servono a separare quella che è una evidente unità in aspetti funzionali che appaiono distinti e che è utile considerare tali (interessante indagare le ragioni dell’utilità): da una parte il corpo, la materia, l’hardware, i dati come oggetto di azione ovvero cose agite e dall’altra la mente, il software, il programma, ovvero i principi dell’azione stessa. Lungi dall’essere inutile, questa contrapposizione dialettica ricorda Peirce, nella sua oscura distinzione (intuizione) della triade primità, secondità, terzità: azione, oggetto di azione, complesso risultante.
La cosa agita ,sola, è cosa morta. Il principio d’azione, solo, è impotente.
Peirce dice esplicitamente: Firstness is the mode of being of that which is such as it is, positively and without reference to anything else. Secondness is the mode of being of that which is such as it is, with respect to a second but regardless of any third. Thirdness is the mode of being of that which is such as it is, in bringing a second and third into relation to each other (CP 8.328) e addirittura identifica l’aspetto mentale nella terzita’ e quello dell’azione “bruta” nella secondita’: If you take any ordinary triadic relation, you will always find a mental element in it. Brute action is secondness, any mentality involves thirdness (CP 8.331-332)
e ancora: “Careful analysis shows that to the three grades of valency of indecomposable concepts correspond three classes of characters or predicates. Firstly come “firstnesses,” or positive internal characters of the subject in itself; secondly come “secondnesses,” or brute actions of one subject or substance on another, regardless of law or of any third subject; thirdly comes “thirdnesses,” or the mental or quasi-mental influence of one subject on another relatively to a third.” (‘Pragmatism’, CP 5.469, 1907)
Un collegamento tra Ryle e Peirce e’ quindi possibile nel fatto che “il mentale” e’ qualcosa che richiede un oggetto e un’azione, ma che non puo’ separarsi da esse. L’azione e l’oggetto agito, per il fatto che si verifica l’azione costituiscono assieme una nuova entita’, di origine “mentale”. Tornando all’esempio di Ryle, l’oggetto guanto destro e quello guanto sinistro, per via dell’azione di infilarsi i guanti digenvono la coppia di guanti. Ma cosa significa in questo caso “mentale”? la percezione della terzita’, non viene in prima battuta dai sensi, ma esiste ed origina da un rifrangersi delle esperienze (di oggetti agiti) precedenti. Tornando al problema di Ryle, la mente e il corpo non possono essere distinti in quanto l’esperienza (la terzieta’) che chiamiamo la mente e’ il frutto dell’oggetto (primita’ – il corpo) e della sua azione (secondita’ – il vivere il/nel/col/attraverso il corpo). Infatti senza vita non vi e’ mente.
Osservazione (embrionale) ulteriore: e’ proprio grazie all’azione che oggetto si distingue da oggetto, e una unita’ si separa (per via della funzione distinta) in due. Un singolo sistema organico, completo in se delle proprie funzioni, si separa in oggetti distinti che hanno tra loro una relazione (agiscono uno sull’altro) ed eventualmente possono essere colti, percepiti nel loro interagire, come una terzita’, cioe’ un tutto di nuovo unico, ma di ordine superiore. Viceversa puo’ darsi che due oggetti distinti siano funzionalmente cosi’ uniti da essere percepiti sensibilmente, in prima battuta, come un uno. Separazione dell’uno in due, e unione del due in uno.
Annotazione a margine: Peirce acutamente ma in modo oscuro introduce nella terzita’ la previsione, cioe’ la capacita’ di compiere (fulfill) azioni secondo leggi universali: This mode of being which consists, mind my word if you please, the mode of being which consists in the fact that future facts of Secondness will take on a determinate general character, I call a Thirdness. Lowell Lectures, CP 1.26 Questa intuizione si collega assai bene alla mia (?) definizione di intelligenza come capacita’ di previsione.
Bauman, intervista sull'identità · 2008-05-28 by mmzz
Zygmunt Bauman, in Intervista sull’identità (Laterza, 2003,2007) rmette in evidenza alcuni aspetti essenziali per calare nella realtà sociologica ciò che penso in merito a identità, identificazione ed importanza del codice e del segno. Racconta del censimento della popolazione nella Polonia multietnica prima della prima guerra mondiale. Dice Bauman (p.15): L’obiettivo di riplasmare questo amalgama con conversioni e assimilazioni forzate allo scopo di ottenere una nazione omogenea o quasi […] era forse perseguito con forza da una parte della élite politica, ma era ben lontano dall’essere universalmente accettato e dall’essere ricercato in maniera coerente, un progetto lontanissimo dal compimento. Date queste premesse il processo apparentemente solo descrittivo del censimento (una rilevazione ufficiale della popolazione) era in realtà finalizzato ad una normazione. Il censimento serviva cioè a incasellare (identificare) le persone anche se queste non sentivano come identità quella che l’identificazione del censimento attribuiva loro, Infatti, (p.16) In circa un milione di casi i rilevatori del censimento non riuscirono a ottenere risposta su questo punto: la gente da loro interrogata semplicemente non riusciva ad afferrare il significato di parole come “nazione” e “avere una nazionalità”. Le parole di Barthes sulla “langue qui oblige a dire” assumono alla luce di questa narrazione una dimensione preoccupante, specie se si considera a cosa sono serviti i censimenti nelle mani dei nazisti e come sono state usate le appartenenze etniche e religiose pochi anno dopo. La parola “nazione”, prima assente dal vocabolario, appena nata assume una dimensione prescrittiva prima ancora di quella descrittiva: la connotazione precede la denotazione. L’ideologia è la matrice stessa del significato. Prosegue Bauman: […] i cittadini censiti continuavano ostinatamente a dare le sole risposte che per loro avevano un senso: “siamo locali”, “siamo di questo posto”, “siamo di qui”, “questa è la nostra terra”. Alla fine i responsabili del censimento dovettero arrendersi e aggiungere la voce “locali” alla lista ufficiale delle nazionalità…. Bauman conclude questa narrazione introducendo un elemento di mimesis come finzione (p.19) dicendo che L’idea di “identità”, e di “identità nazionale” in particolare, non è un parto “naturale“dell’esperienza umana, non emerge da questa esperienza come un lapalissiano “fatto concreto”. E’ un’idea introdotta a forza nella Lebenswelt degli uomini e delle donne moderni, e arrivata come una finzione. Si è congelata in un “fatto”, un “elemento dato”, proprio perché era stata una finzione e perché si è allargato un divario, dolorosamente percepito, tra ciò che quell’idea implicava, insinuava, suggeriva, e lo :status quo ante […]. In altre parole, la finzione consiste nella creazione di una parola che è apparentemente naturale, che fa parte dell’ordine naturale delle cose, che descrive il mondo così come lo troviamo, ma che, pur senza fare riferimento a un significato autentico (vero perché socialmente condiviso), ha una tale portata connotativa ed ideologica da non aver nemmeno bisogno di denotare. Penso che un altro esempio di parola di questo tipo sia “razza”. Il fine di queste parole è solo apparentemente descrittivo, ma in realtà normativo e regolatorio sin dall’inizio. Sono parole adottate allo scopo di costituire per chi le interpreta un codice a cui obbedire: la mia nazione, la mia razza mi identificano, esercitano una pressione su come mi comporto, e se necessario si pongono immediatamente come opposizione alla tua nazione e razza. Nelle parole di Bauman questa sovrapposizione di codice a cui obbedire ed identità forzata dalle parole è resa assai bene: L’identità può entrare nella Lebenswelt solo come un compito, un compito non ancora realizzato, non compiuto, come un appello, come un dovere e un incitamento ad agire: e il nascente Stato moderno ha fatto tutto il necessario per rendere obbligatorio tale compito nell’ambito della sua sovranità territoriale. L’identità nata come finzione aveva bisogno di un gran dispiegamento di coercizione e convincimento per irrobustirsi e coagularsi in una realtà (più correttamente: nella sola realtà pensabile); e nella storia della nascita e maturazione dello Stato moderno questi due elementi abbondano (p.20) Non possono sfuggire i collegamenti con quanto dice Barthes sulla “naturalizzazione” del segno e della sua apparente innocenza e sul potere del codice di generare il “mondo così com‘è”. I segni non sono solo parole: il segno si rivolta contro il segno, e si bruciano i libri. Il segno di un confine su una carta geografica chiede vite a milioni per spostarsi di qualche millimetro.
Chiaramente non è solo lo Stato a cercare l’identificazione. Nella modernità priva di appigli solidi che Bauman chiama liquida e che tratteggia meglio nella seconda parte del testo (in toni abbastanza apocalittici, ma con un solo, luminoso cenno di speranza) le persone vengono sbalzate in una situazione di incertezza sistematica e costante che investe ogni aspetto della vita sociale, professionale, affettiva e che alla quale non sembra esservi riparo. In questo contesto Dal momento che l’identità perde i suoi ancoraggi sociali che la fanno apparire “naturale”, predeterminata e non negoziabile, l’“identificazione” diventa sempre più importante in quegli individui che cercano disperatamente un “noi” di cui entrare a far parte (p25) visto che La voglia di identità nasce dal desiderio di sicurezza[…]. (p.31).
Quindi abbiamo lo Stato (con la nascita dello Stato nazionale) come fonte di identificazione, accompagnata dalla ricerca di una sicurezza messa particolarmente in discussione dalla mancanza di identità “naturali”. A questi due processi di identificazione Bauman aggiunge un terzo aspetto non trascurabile, anche se da lui poco sviluppato, di identità al negativo: Max Frisch […] ha definito l’identità come il rigetto di quello che gli altri vogliono che tu sia” (p.43)
Viene cioè sinteticamente espresso il contrasto, la composizione, di due forze opposte: l’identificazione (quello che gli altri vogliono che tu sia) con l’identità (il rigetto), che nasce come forza opposta.
Un ultimo tratto mi ha colpito in modo particolarmente inquietante, visto che riguarda la nascita delle comunità da odiose ed inumane violenze. Dal depotenziamento del ruolo dello Stato e dalla sua distruzione Bauman deriva l’insicurezza che porta agli eccessi che si sono visti in ex-Jugoslavia, in cui “gli impulsi atavici” […] sono stati laboriosamente costruiti mettendo il vicino contro il vicino, il congiunto contro il congiunto, e trasformando tutti coloro marchiati come membri di una futura, progettata comunità in complici attivi del crimine […]. per cui […] infrangere uno ad uno i più sacri dei tabù e farlo pubblicamente […] erano in realtà atti di creazione di una comunità[…] (p.67). Le vittime della violenza vengono distrutte perché non abbastanza diverse: occorre la violenza di cui sono oggetto perché diventino tali.
Molti altri sono i passi e le tematiche interessanti di questo breve libro-intervista: ho messo in evidenza solo quelli che si riferiscono al segno all’identità e all’identificazione.
· 2008-05-26 by mmzz
Cultura è ci ò che insegneresti a tuo figlio