scetticismo e scetticismi · 2008-10-24 by mmzz
Un approccio scettico dogmatico, oltre che inconsistente internamente (ed essere anche una fastidiosa posa), può portare facilmente all’identificazione tra “posse”, il potere come possibilità tecnica, e il “licere”, la possibilità legittima, e quindi alle posizioni di Trasimaco (giusto è ciò che è vantaggioso per il più forte), ma —mi pare— anche a quelle di Shmitt sullo stato di eccezione e a Strauss.
Tuttavia anche le posizioni non scettiche che postulano l’esistenza di una verità necessaria conoscibile non sono immuni da problemi. Una teoria della verità forte, formale, che comprenda in se’ il concetto di verità va anch’essa incontro a paradossi, come ha posto in evidenza Tarsky. Pur senza abbordare le intricatezze delle dimostrazioni tarskiane (che non sono nemmeno del tutto certo di comprendere), per porre i termini della questione basta il solo tentativo di asserire la verità/falsità di un enunciato come “questo enunciato è falso”.
Il procedimento che applichiamo a «E’ vero/falso che “X”» e’ quello di considerare prima quanto affermato nelle virgolette (X), considerarne la validità, ed in seguito applicarvi il criterio di verità o falsità. «E’ vero che “la temperatura dell’aria è di 15 gradi”» impone di 1) registrare quanto X afferma 2) confrontarlo alla misura della temperatura esterna mediante un termometro. Le operazioni sono due, una di verifica formale dell’enunciato X, e la seconda di applicazione dello stesso al mondo sensibile o alla nostra esperienza, memoria, capacità di previsione, ecc. in modo da poter esprimere un giudizio i verità o falsità, cioè una verificazione o validazione.
Se “X” e’ “questo enunciato è falso” sulle prime non ci sembra accada nulla di strano. La frase X e’ ben formata, e’ comprensibile. Quando cerchiamo di coglierne il senso, ci accorgiamo però che qualcosa non funziona: la parola “questo” nell’enunciato si riferisce a X stesso, c‘è autoreferenzialità e questo disturba. Poi passiamo a valutare se X è “vero” o è “falso”, ed entriamo in un anello senza fine di senso (ricorsione), che poi ci porta a sospendere l’attività perché la ricerca si avvita su se stessa senza alcun risultato: se X e’ vero allora è falso, e se X è falso allora è vero. Se `e vero che “questo enunciato è falso” allora non può esserlo e quindi «E’ falso che questo enunciato è falso”», ma in tal caso esso è vero. Dopo un paio di passaggi non serve più procedere e occorre concludere che l’enunciato è indecidibile,
Dietro al termine “verità” si nasconde dunque sia un criterio di “validità” interna, formale, logica, necessaria ma limitata alla formulazione degli enunciati, sia un processo che più propriamente dovrebbe chiamarsi “validazione” o “verificazione” che parte dell’enunciato e si riferisce al mondo sensibile, all’esperienza o alla memoria. Il passaggio dall’enunciazione formale alla percezione sensibile introduce necessariamente un elemento soggettivo che tende a erodere se non a minare l’esperibilità collettiva di una verità unica e necessaria. Leggendo in senso transitivo il termine “verificazione”, non si puo’ non notare che il suo reciproco e’ “verum esse ipsum factum” (Vico).
Questa constatazione può portare alla scelta di tacere sul secondo passaggio, quello della verificazione, fintanto che non sia possibile concordare un criterio di verità con l’interlocutore, o sancire l’impossibilita’ di raggiungerne uno. Questa scelta, come ad esempio la tratteggia Roland Barthes in “Le Neutre”, rispecchia uno scetticismo né dogmatico né funzionale al controllo sociale, ma al contrario teso alla ricerca e alla riflessione, nel pieno rispetto degli altri e della radice skep-.