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Mediterraneo · 2008-08-30 by mmzz

Sur un plateau désolé était posé un trou ligotè

“su un piano desolato era posato un buco legato”: il buco legato è rappresentato da un gomitolo di spago nel libro “L’ombrelle en papier” dell’artista belga Jacques Louis Nyst (1977).

Lo storico François Braudel, nel testo da lui curato “Il Mediterraneo” (1985 Flammarion, 1987 Bompiani), dà del nostro mare la stessa idea: un abisso avaro, circondato da aride terre montagnose e da un altro mare, il deserto. Le terre che lo circondano sono “da conquistare”, popolate da società tradizionali nomadi o transumanti, fatte di uomini e donne “condannati senza remissione alla sobrietà”, centrate sulla coltura dell’olio e della vite, sempre in difetto di grano e pane.
Tuttavia questo vuoto che, prima ostacolo insormontabile, va sempre più restringendosi per l’accorciarsi dei tempi di percorrenza, lega insieme terre e popoli e li unisce per le origini comuni, per la lunga consuetudine al mercanteggiare, per il farsi guerra ed il migrare senza posa. Le sue sponde sono “luogo di elezione di civiltà adulte”, e per Braudel la civiltà è quella dotata di antichità e persistenza: Prima caratteristica dunque, le civiltà sono realtà di lunga, lunghissima durata. Seconda: sono saldamente aggrappate al loro spazio geografico. Certo, la più forte, la vittoriosa penetra spesso nelle più debole, la colonizza, vi installa i propri quartieri e le proprie postazioni di comando. A lungo termine però l’avventura va a finir male. […] La regola, ove si tratti di civiltà adulte e strutturate […] è comunemente il fallimento, anche se, ripetiamo, si verifica spesso con molta lentezza. In effetti qualsiasi civiltà affermata si sottomette soltanto in apparenza, e in tali occasioni acquista in genere maggiore coscienza di sé, arriva all’esasperazione e sviluppa un nazionalismo culturale intransigente (p.108)
Tra le caratteristiche contrapposte di queste civiltà, Jean Gaudemet (nel saggio “Il miracolo romano”) identifica quella (a mio avviso ancora non sopita) tra “popolo” e “istituzione”: Mentre il pensiero politico greco vede nella polis prima di tutto una comunità di uomini (quella ateniese è denominata ufficialmente con l’espressione “gli ateniesi”), Cicerone, da buon romano, la considera fondata sul diritto. La nozione di “res publica” […] risponde allo stesso concetto. […] E non si può negare che la res publica faccia pensare al popolo (populos, publicus). Anche in questo caso, però, come testimonia Cicerone (De re publica I 25 39), il popolo non è un semplice aggregato di individui, ma un gruppo unito “da un consenso giuridico e per la comune utilità” (p.171) Il consenso giuridico si esprime in produzione di diritto, con conseguenze molto ampie fino ai giorni nostri, se non altro nei paesi di diritto scritto. La parola “codice” riassume efficacemente questo consenso: denota un comune modo di agire, un comportamento in fase. Sempre Gaudemet: Nel periodo che va dalla metà del II secolo al regno di Giustiniano (527-565) emerge innanzitutto, assieme ad una legislazione abbondante, l’apparizione, in alcune grandi città, di scuole di diritto, municipali o imperiali […]. Roma, Alessandria, Beirut e Costantinopoli attirano i futuri amministratori dell’impero. Un lustro particolare, rimasto celebre, assunse in questo senso Beirut nel V secolo. Un altro dato essenziale è la preoccupazione costante di rendere accessibile l’immensa mole di diritto […]. Nascono così tentativi privati di compilazione, che raccolgono elementi della legislazione imperiale e frammenti di testi dottrinali. Utilizzando il supporto materiale del codex , che tendeva a sostituirsi ai lunghi rotoli, le compilazioni di costituzioni imperiali ne assunsero il nome, destinato a singolare successo. (p.179) fino ai codici di Teodosio II e di Giustiniano e persistente nel “diritto romano” fino ai giorni nostri. Il codice come legge scritta, e la sua necessità in un contesto di vigenza vasto come quello dell’impero, forse deve supplire ad un codice interno, un comune comportamento, per il quale spesso è sufficiente la norma sociale, sovente trasmessa oralmente.

Il 1985, anno di pubblicazione della raccolta di saggi, conosceva già le migrazioni turistiche attuali da nord a sud, ma ignorava quelle delle nostre “carrette del mare”, da sud a nord.
Il saggio di Maurice Aymard, “Migrazioni” ripercorre lo spostamento di popoli attorno al nostro mare, senza dimenticare i 25 milioni di Italiani (metà della popolazione del 1960) partiti dal 1860 al 1970, né quelle degli invasori miliari che […] si trovarono di fronte alla necessità di venire patti con un passato tenace, di rispettare, se necessario in cambio di denaro, usi e credenze, di assimilare in seguito le élites locali. Ciò a meno di genocidi o di espulsioni totali, come accadde diverse volte con gli ebrei e con gli armeni. Aggiunge Aymard: Da un’estremità all’altra del Mediterraneo il nostro secolo [il XX] tende così a disfare, separare e distinguere quel che la storia aveva unito, giustapposto e fuso strettamente. Punto di arrivo di una lenta sedentarizzazione, ogni popolo di identifica in una nazione, in uno stato, in un territorio delimitato da fontiere. (p229) La riflessione non può che portare su questa identità, che si fonda su frontiere invece di fondarsi sul suo baricentro, il Mediterraneo, e sulla sua lenta filogenesi, derivante da fusione anche dolorosa con il vicino, il nemico, il concorrente, il socio in affari. Ma forse questa nuova “identità” deriva piuttosto dalla necessità di una identificazione da parte degli stati nazionali. Come ho già osservato nella lettura di Bauman l’identità nazionale prima che essere descritta viene prescritta.

Non varrebbe forse la pena di recuperare l’identità che unisce al posto di quella che separa? Una comunità, un aggregato di popoli, che forse oggi più che mai ha bisogno di una sua res publica, costruita da un consenso attorno al comune interesse e alla comune storia. Un po’ come il gomitolo di spago che forse tiene legato il vuoto, ma che senza questo vuoto non esisterebbe.