libertà e informazione. Ovvero perchè siamo liberi. · 2009-02-17 by mmzz
Se l’universo (o il pezzo da noi abitato) segue leggi deterministiche, anche i viventi sono determinati. Anche il comportamento, quindi, segue leggi per cui a ciò che precede segue necessariamente uno stato susseguente, potenzialmente conoscibile, a condizione di conoscere con sufficiente grado di precisione lo stato del sistema e le leggi che esso seguirà negli stati successivi.
Pur ammettendo che i sistemi complessi abbiano un grado elevato di imprevedibilità dovuto a comportamenti non lineari, resta il fatto che —teoricamente ed astrattamente— ogni essere è determinato. E qui si ferma il ragionamento astratto, perché nella prassi accade che si presentano dei limiti: 1) non è possibile possedere il grado sufficiente di precisione per produrre una previsione efficace; 2) non si conoscono o le leggi o lo stato iniziale del sistema 3) non si ha il tempo per mettere in atto una simulazione del sistema tale da prevedere ciò che deve accadere prima che accada. L’imprevedibilità cioè si manifesta per un difetto di risorse (tempo, informazioni, potenza di calcolo) da parte di un osservatore.
Immaginiamo dunque quali possano essere le condizioni per cui un sistema, complesso a piacere, possa essere considerato “libero”, cioè non determinato. Pur avendo postulato che vi siano delle leggi necessarie, abbiamo detto che vi sono dei limiti e questi possono contribuire a fare si che un sistema, pur determinato, sia considerabile libero agli occhi di un determinato osservatore. Non c interessa sapere se un sistema sia intrinsecamente o ontologicamente libero.
Il sistema che osserva, se fornito in input dell’insieme (leggi, stato iniziale sistema osservato) fornirà in un dato tempo, in output, uno stato finale del sistema osservato.
Se il tempo fosse insufficiente o il risultato errato, l’osservatore giudicherà che il sistema gode di un certo grado di libertà, graduato secondo l’errore commesso, la frequenza e regolarità di eventi imprevedibili, ecc.. L’osservatore può anche fornire degli input al sistema osservato, in modo da vagliare lo spazio di eventuali possibili stati interni, influenzandolo ceteris paribus. In questo modo otterrà delle informazioni sullo stato interno o sulle leggi che lo governano.
Ma il sistema che osserva può coincidere con quello osservato, e questo introduce delle interessanti complicazioni. Un sistema che si osserva (chiamiamolo riflessivo) candidato all’attributo di “libero” necessita di una capacità di previsione da indirizzare nei confronti di se stesso. Un sistema riflessivo prenderà in input il proprio stato al tempo t e fornirà al tempo t’ un output che comprende il proprio stato (o un sottoinsieme di esso) al tempo t”, Se t’ <= t” il sistema è in grado di prevedersi, e —per quel particolare evento — non è libero, Altrimenti, se fallisce o prevede “in ritardo” è libero. Sono esclusi da questo tipo di ragionamento i sistemi che non sono in grado di fornire come output una descrizione del proprio stato, in funzione di una previsione. Non posso dire che un termostato è libero perché incapace di prevedersi, ma perché non è in grado di produrre un output che prefiguri un suo proprio stato futuro mettendolo in relazione con certe leggi e uno stato iniziale.
Di conseguenza i sistemi complessi che non sono in grado di prevedere ciò che faranno —pur potendolo fare— sono liberi.
Ciò che complica la questione è il fatto che anche se il sistema fosse in grado di produrre una previsione prima che questa si verifichi, questo output entrerà a far parte dello stato interno del sistema oggetto della previsione stessa. In sostanza, la previsione di un sistema riflessivo non solo deve avvenire prima che si compia l’evento da prevedere, ma il sistema deve poter prevedere anche che avrà compiuto quella particolare previsione che sarà inclusa nel suo proprio stato. Sarebbe come dire che l’oggetto di una previsione sarà l’evento della previsione stessa. Una previsione, per avvenire in condizioni di completezza di informazioni, richiederebbe che l’output del processo di previsione sia parte dell’input del medesimo. Il che può avvenire per puro culo, non per effetto di una qualche legge. Cioè, in un sistema che cerchi di prevedere se stesso, una previsione sarà non solo riflessiva, ma anche ricorsiva e retrocausale.
Ciò che più probabilmente accade in un sistema riflessivo è che esso tenta una previsione in base alle informazioni disponibili, produce “in tempo” un output, che entra a far parte di un nuovo stato del sistema e parte di un nuovo processo di previsione, finché l’evento atteso non si manifesta. Nel frattempo le previsioni continuano ad entrare a far parte dl sistema con diverse possibili dinamiche (rafforzamento, flip-flop, ecc).
In sostanza —a meno di ammettere la retrocausalità— è ben difficile che un sistema riflessivo, cioè in grado di produrre una rappresentazione di un proprio stato futuro, non sia libero, in quanto estremamente inefficace nel prevedersi.
Tre passaggi · 2009-01-24 by mmzz
- ghost in man: l’uomo ha un’anima (separata dal corpo). Religioni.
- man in the machine: l’uomo è una macchina, transumanesimo, cartesianesimo
- ghost in the machine: la macchina ha un’anima. La coscienza emerge dalla macchina.
Il diritto di natura non prescinde dalla vita · 2009-01-24 by mmzz
Gli autori che parlano di diritto naturale spesso ricorrono ad artifizi, finzioni e narrazioni per cercare di descrivere uno stato ipotetico, necessario per la loro dialettica, uno stato che non esiste o non è mai esistito nella realtà, al fine di definire meglio il diritto naturale come quello che investe la persona che si trova in quello specifico stato. Ritengo che il ricorso a questa finzione derivi da un concetto di natura che esclude l’uomo, e che vede l’uomo erroneamente isolato.
Hobbes ipotizza un uomo isolato, guidato unicamente dalle sue passioni, che nascono e si esauriscono in un singolo individuo, e che sono le sole forze che lo muovono. Rousseau tenta una narrazione fantastica, in cui un ipotetico uomo, solo, erra senza coscienza di sè in uno stato di natura. Rosmini, più raffinato, tenta un artificio, quello dello stato di dissociamento , in cui —come farebbe uno scienziato naturale—, si considera l`uomo scisso in una parte sociale ed in una individuale, analogamente a quanto farebbe uno studioso di anatomia che separa le carni per osservare lo scheletro.
Nelle sue parole: E’ al tutto secondo ragione, che il filosofo proceda qui alla guisa del matematico, cioè che egli esponga innanzi d’ogni altra cosa i diritti umani, astraendo dal fatto della società, non per distruggere questo fatto, ma per considerare prima quello che, almeno per ordine di natura e di ragione, ad esso precede, e da esso è supposto e richiesto, come è supposta e richiesta l’ossatura del corpo rivestito e bellamente ritondato dalle carni.
E anche: Astrarre vuol dire che dividere e considerare una parte, un elemento d’una cosa in separato dall’altro, come se l’altro non fosse (citazioni in Ferronato La fondazione del diritto naturale in Rosmini, 1998, pp.101, 102).
Questa, come le altre operazioni, a mio avviso non è lecita:
In primo luogo è lecito ricorrere all’astrazione riduzionista (che consente di ridurre un sistema complesso fatto di ossa e carni ai suoi componenti) solo rispettando la condizione_ceteris paribus_ , cioè che osservando un componente ogni altro resti immutato. Significa che se voglio analizzare la struttura ossea, questa non cambierà di forma, struttura, proprietà e funzione per il fatto che rimuovo i muscoli e la pelle che la ricopre. Tuttavia la condizione ceteris paribus non è rispettata se inserita nella filosofia rosminiana, che in primo luogo riconosce che l’uomo è animale socievole e sociale, e premette che ontologicamente la socialità è imprescindibile dall’uomo, e anzi lo pervade nella sua essenza, ne è un principio costitutivo. La persona è un principio innanzitutto relazionale, che nasce dalla partecipazione all’essere. Di conseguenza risulta forzata l’operazione di “dissociamento” delle diverse nature, quella sociale da quella individuale. Se vale le premessa, e tale è la natura dell’uomo, “togliere” l’aspetto sociale significa snaturarlo: infatti i principi, i moventi, i fini, i mezzi, tutto nell’uomo non può prescindere —data la premessa— dalla socialità. Da qui —a mio avviso— sorge contraddizione nel cercare la natura dell’oggetto che si studia compiendo in primo luogo un’operazione che lo snatura.
Analogo ragionamento può essere applicato alle premesse Hobbesiane, che da una parte vede nell’uomo un meccanismo, una macchina, un oggetto interamente determinato che financo nel suo ragionare non fa che porre un “calcolo sui nomi”; dall’altra un essere capace di volontà, di pulsioni che muovono qualsiasi suo atto, al pari di qualsiasi animale. La questione che qui si pone non è quella della libertà dell’atto volontario, ma del fatto che queste due visioni rispondono a principi completamente diversi e di difficile concilazione: da una parte una causa efficiente, che spinge per necessità ogni movimento, in una catena di conseguenze determinate da cause precedenti. Dall’altra invece il movimento trae origine da una causa finale, da un evento futuro verso il quale l’essere vivente tende, in previsione che questo si verifichi o viceversa possa essere evitato. Conciliare queste due premesse non è cosa facile: come si possono raccordare questi due punti di vista, a che livello e su che scala le due premesse possono coesistere?
O l’animale uomo è una macchina, priva di pulsioni e volontà, che viene mossa; oppure è capace di volere, di pulsioni e passioni.
Possiamo tntare una risposta allontanandoci da Hobbes, e considerando il problema in termini contemporanei. Pur ammettendo che possano esservi (anzi, personalmente direi che assai verosimilmente vi sono) “meccanismi” deterministici necessari e sufficienti alla base di qualsiasi processo, fisico, chimico o biochimico sui quali si fonda la vita, ciò non toglie che ciò che muove il vivente si arricchisce di un elemento assente nella materia inanimata, che viene sommariamente chiamato “fine”. Un legame necessario e sufficiente (che spiega cioè esaurientemente tutto il moto, senza dover ricorrere ad altro) tra causa efficiente (principi biochimici del moto) e causa finale (la volontà, pulsione o passione) è riscontrabile solo in organismi assai semplici, per i quali è possibile ricondurre le “passioni” che li attirano a ben determinati condizioni e processi biochimici. Ad esempio il gradiente di concentrazione di sostanze nutrienti nell’ambiente “attira” l’organismo unicellulare operando sulle sue ciglia vibratili nel fenomeno chiamato chemiotassi, analogamente al movimento della pianta verso la luce (fototropismo). In questi semplici casi, il movente (la ricerca di cibo come fine) può rappresentare una descrizione sintetica di una cascata di eventi causali che, a parità di condizioni, hanno sempre lo stesso esito, di “muovere verso un fine”. In aggiunta, nella descrizione sintetica viene ricompresa anche una seconda cascata di eventi: la filogenesi dell’organismo stesso, cioè il perché quel determinato organismo si muova vero il suo “fine”, ovvero il lunghissimo processo di selezione ed adattamento naturale che ha prodotto organismi che si muovono verso il cibo o la luce invece di allontanarsene. Riassumendo, il ricorso alla descrizione sintetica che va sotto il nome “fine” ricomprende (ed consente di evitare) due descrizioni analitiche: una sincronica, che si riferisce al collegamento tra causa efficiente e causa finale, una diacronica, che rende conto della filogenesi. In termini aristotelici quest’ultima potrebbe essere ricondotta alla causa formale, ovvero al “perché la cosa è com‘è”. All’aumentare della complessità degli organismi il collegamento tra descrizioni sintetiche e analitiche ai allarga, e diviene sempre meno evidente. Si deve far ricorso a termini quali “volontà” e “ libertà” per giustificare un movimento che per la sua complessità viene ormai chiamato comportamento e si riferisce a scelte.
Come nel caso della scelta di Rosmini, ma anche la narrazione di Rousseau di un uomo in “stato di natura”; nel tentare separare un uomo sociale da un uomo dissociato, non è più di tanto possibile prescindere (come se fosse possibile applicare il principio ceteris paribus) dalla interconnessione non solo della società umana, ma degli esseri viventi tra di loro.
Ritengo sia più efficace vedere al punto che è più facile vederli come elementi di un sistema vivente che come esseri viventi individuali.
Forse sarà possibile affrontare, anche in questi termini, il problema che ha spinto gli autori sopra citati di giustificare un diritto individuale contrapposto ad uno sociale, di cui l’esempio più emblematico è quello della giustificazione al diritto alla proprietà di beni privata cioè tolta ad altri individui.
Se la premessa per giustificare un diritto naturale è quella di preventivamente snaturare l’uomo, il contenuto di un diritto naturale potrà essere qualunque: basterà operare questa rescissione dell’uomo dal resto della natura in modo opportuno, escludendo o includendo ciò che si vuole più o meno naturale. Se invece si considererà il vivente come soggetto di cui l’uomo è parte, sarà possibile coglierne una maggior ricchezza di aspetti.
L’ampiezza della capacità di azione dell’uomo sul suo ambiente, dal DNA al clima, alla possibilità di programmare soggetti artificiali sempre più autonomi, non può lasciare solo l’uomo come unico oggetto del “diritto naturale”.
la crisi e il capitalismo anarchico: non avrà mica ragione Rothbard? · 2008-12-25 by mmzz
Sono francamente sconcertato dalla lettura di Rothbard, capitalista radicale (anarchico) che contesta il ruolo dello stato. Sto riflettendo da tempo sullo stato e sul fatto che ci paia naturale come l’aria (é cioè riuscito a passare dall’ideologia al senso comune ed essere naturalizzato) mentre non lo è affatto. Sono sorpreso di leggere in “lo stato falsario” (What Has Government Done to Our Money?): Tutti questi limiti, naturalmente, si basano su una fondamentale obbligazione: il dovere delle banche di rimborsare a vista i propri debiti. Abbiamo visto che nessuna banca con riserva frazionaria può rimborsare tutte le proprie passività; e abbiamo anche visto che questo è il rischio che ogni banca si assume. Ma, ovviamente, per qualsiasi sistema di proprietà privata è essenziale che gli obblighi contrattuali siano adempiuti. La maniera più brusca che ha il governo per promuovere l’inflazione, allora, è di garantire alle banche lo speciale privilegio di rifiutare di pagare i loro debiti, e di continuare nella loro attività. Mentre ogni altro soggetto deve pagare i propri debiti o va in bancarotta, ALLE BANCHE È CONSENTITO di rifiutare la restituzione di quanto incassato e, al tempo stesso, è consentito loro di obbligare i propri debitori a pagare quando i prestiti arrivano a scadenza. L’espressione tipica per descrivere ciò è una “sospensione dei pagamenti in moneta metallica”. Un’espressione più corretta sarebbe “AUTORIZZAZIONE AL FURTO”; perché in quale altro modo possiamo definire un permesso governativo a continuare l’attività economica senza onorare i contratti?
E’ esattamente ciò che gli stati stanno tutelando oggi, con le tasse dei contribuenti: il diritto delle banche di truffare i risparmiatori e il mercato minacciando il fallimento, sapendo che gli stati non permetteranno che accada, visto che ciò minerebbe l’esistenza dello stato stesso. Quello che il “mercato” non considera (o meglio non dice ai risparmiatori) è che questo giochetto costerà caro in termini di inflazione, perciò lo slogan “i tassi devono scendere” è prescrittivo, non descrittivo. Cioè esprime un ordine o meglio un auspicio, non l’estrinsecazione di una “legge” di mercato. I tassi saliranno di nuovo, per effetto della moneta stampata per risollevare le banche (e coprire le truffe) e favorire i consumi.
Il problema che questa crisi non ha posto nei termini reali è: che rapporto c‘è tra Stati e banche? A cosa servono gli uni e le altre? O meglio: servono ancora a qualcosa e qualcuno oltre che se stessi? Gli stati onorano la promessa contratta con gli elettori e li tutelano da interessi sovranazionali e sovrastatali o piutostto sono venduti nella persona dei loro governi agli attori delle speculazioni, elite delle elite? O peggio ancora ne sono strumenti inconsapevoli, o ancora peggio nessuno sa cosa succede e il primo furbo ne approfitta?
naturale ed artificiale · 2008-12-14 by mmzz
naturale ed artificiale sono in campi opposti e si definiscono a vicenda, in tensione continua tra loro. Tuttavia non è sempre così chiaro cosa è cosa.
naturale ha per me tre sfumature significative:
- nel senso di “Natura” come appartenente all’ordine naturale, ovvero ciò che non è fatto dall’uomo. Per conseguenza anche ciò che non è mai stato alterato né toccato dall’uomo. Puro, armonioso. Come in un paesaggio naturale. Si oppone ad artificiale nel senso di costruito, frutto di un disegno, di un progetto, privo di un fine pensato dall’uomo, architettato, come una macchina.
- ciò che è così come si trova ora sin dalla nascita, e si trova in un ordine delle cose permanente, o che riteniamo tale, o non messo in discussione perché originario, o che si rifà a principi assoluti trascendenti, per cui ogni alterazione viene da un intervento che perturba tale ordine. Si oppone ad artificiale come innaturale, manomesso, artato, “contro natura”. Come in “ordine naturale”, “legge naturale”, si tratta di qualcosa di assoluto.
- nel senso di connaturato, di parte dell’essere, immanente. Non alieno, non estraneo, ma legittimo, che è normale attendersi. Ad esempio un desiderio, un gesto, un atto, un comportamento naturale. Pur trattandosi di cosa umana, vi si riconosce l’atto di un uomo parte della natura, di un ordine armonico. E’ sinonimo o affine a “normale” o spontaneo; si oppone a artificiale nel senso di contraffatto, falso, adulterato. Significa che pur trattandosi di situazione che prevede l’azione deliberata e consapevole dell’uomo, questa avviene in un ordine armonioso, come se fosse in natura, o derivante da legge naturale. Per estensione, tutto ciò che non è artificialmente controllabile, ma dipende da una legge è naturale.
Ad eccezione della prima sfumatura, ciò che è fatto dall’uomo può diventare naturale, Nel secondo caso, diventa naturale ciò che non lo era, se si trova a far parte dell’ambiente e viene accettato in esso, in modo da essere “naturalizzato”, cioè da essere omologato a ciò che è naturale nel primo senso.
Nel terzo caso, è naturale ciò che entra a far parte del comportamento, cioè è accettato nella libreria dei possibili comportamenti accettabili in un data situazione.
Ecco come ciò che non è naturale (nel primo senso) può diventarlo: attraverso la naturalizzazione. L’inquinamento è naturale, nel senso di normale, così come la riduzione in sostanziale schiavitù per opera delle leggi naturali dell’economia. Dimenticando che come scrive Lessig I mean by “architecture” the world as I find it, understanding that as I find it, much of this world has been made.
· 2008-11-22 by mmzz
Il rovesciamento del genitivo mi appare più significativo di quanto pensassi. La definizione di un sistema non può che passare dai suoi genitivi. Ad esempio, come parlare di Italia se non attraverso i sostantivi che vanno associati ad “italiano/a”: Stato, Nazione, Popolo, Storia, Leggi, Istituzioni, Cultura, Governo, Lingua, Territorio, Politica?
Sono questi sostantivi che definiscono l’Italia o viceversa?
arbitrarietà del codice: linguaggio e legge · 2008-11-11 by mmzz
il problema della legge naturale (da cui il giusnaturalismo) e di legge positiva è stato superato elegantemente nello studio della lingua già da Saussure. Le langage non è del tutto arbitrario, per quanto il segno (la singola parola) lo sia , ma non è nemmeno determinato, necessario. E’ una parziale necessità determinata da un processo storico. [citation needed]. Nemmeno si è cercato, in linguistica e in semiotica, una grundnorm, un segno fondamentale, un ur-segno che sia alla base di tutto il processo di significazione.
Si tratta di una necessità storica: apparentemente una contraddizione in termini (come una necessità contingente), ma di fatto un processo reale nel momento in cui si confrontano ritmi diversi. cicli di ampiezza non confrontabile. Quello individuale dell’apprendimento umano di una lingua o di interiorizzazione di una norma, e quello storico di oggettivazione di della lingua e di consolidamento di un sistema giuridico, di un ordinamento.
Quello che manca e’ il passaggio tra le due arbitrarietà: quella del singolo segno, della singola norma (perché quella e non un’altra) e l’arbitrarietà di una lingua e di un ordinamento (quello e non un altro). Credo che il collegamento sia nella resilienza, cioè nella capacità del singolo sistema (linguistico, giuridico) di rispondere adattandosi alle sollecitazioni esterne di un ambiente continuamente mutevole. Un esempio di resilienza del sistema giuridico sta nel principio di equità, secondo il quale un interprete della norma, nel momento in cui questa, applicata al singolo caso, si dimostrasse ingiusta, può derogare ad essa. L’interprete, o la comunità degli interpreti, che si trovasse a registrare una sistematica fallacia della norma generale ed astratta e quindi nella necessità di applicare sistematicamente il principio di equità, giungerà alla conclusione che è opportuno modificare la norma stessa. In questo modo il sistema delle norme, l’ordinamento, evolve. In caso contrario, se non esistesse il principio di equità, la legge non potrebbe essere alterata se non per un processo “top-down”, in cui difficili da rilevare sono le eccezioni. E’ invece necessario un feedback da parte degli utenti finali della parole o della singola norma.
Le convinzioni, il punto di vista interno(Hart) nei confronti delle norme cambia nel tempo. Ciò che era tabù ieri, oggi è comportamento lecito, se non prescritto. La lingua di ieri non è quella di oggi.
I codici linguistici e di comportamento cambiano. Cambiano negli individui e si amplificano o smorzano nella comunità dei parlanti e di coloro che obbediscono a norme sociali secondo leggi che non sono chiare: emulazione (amplificazione) e censura (smorzamento) sono processi che hanno la capacità di riportare a tutta una comunità dei processi individuali.
La resilienza viene dalla comunità di prassi dei parlanti e di coloro che rispettano le norme. Questi agiscono internamente sui propri codici in modo da adattarli a quelli prevalenti nella propria comunità, o vi si oppongono, con maggiore o minor successo.
Non esistono leggi naturali così come non esistono lingue naturali, ma solo codici comunitari che mutano con tempi lunghi secondo il mutamento breve dei codici individuali.
Dalla isteresi (ritardo nell’adattamento) a questo mutamento presentato dalle comunità derivano grandi problemi, perché ai codici è legato il comportamento, e al comportamento è legata l’identità, e la eccessiva distanza tra un codice individuale e quello della propria comunità di prassi (o in generale “l’ambiente”) genera deprivazione di identità, così come le eccessive tensioni nella negoziazione della propria identità all’interno di una comunità con codici troppo dissonanti dal proprio. Integralismo, nazionalismo, etnocentrismo, a mio avviso nascono da queste tensioni.
Collegamento tra sistema, azione · 2008-11-07 by mmzz
Qui , senza accorgermene, ho accostato le osservazioni di Ryle e di Peirce con quello che puo’ operativamente essere definito un sistema. Il dualismo illusorio di una coppia di guanti (che non sono solo due guanti) e la relazione di terzieta’ che emerge da un oggetto e dell’azione che su questo si compie o che da questo emana, esprime efficacemente il momento in cui nasce un sistema nella percezione di un osservatore.
Un sistema non e’ mai solo una somma di componenti in rapporti piu’ o meno complessi tra loro, ma comprende l’azione che da questi promana verso il sistema e verso l’esterno e l’azione che su questi avviene. La sistematicita’ di questa azione, o l’uso, o il comportamento abituale (o anche imprevisto, emergente) puo’ essere considerata effetto del codice che in quel sistema agisce.
La definizione semiotica di segno puo’ essere appropriata a definire un sistema. Le due facce del segno sono un aspetto materiale o oggettivo (parole) e di azione e interazione (langue). Ma da questa unione nasce un qualcosa in piu’, sfuggente e difficile da catturare, ma che puo’ essere osservato come un sistema.
"X" è un X · 2008-11-05 by mmzz
Un sistema é composto da elementi che singolarmente stanno tra loro in relazioni di input/output ad un dato livello N. Il sistema a sua volta può essere elemento di un sistema di ordine N+1, in relazione con altri sistemi dello stesso ordine N+1.
Ogni volta che, considerando un sistema così fatto, può essere reputata valida una affermazione del tipo « “X” è un X» l’affermazione può essere considerata un elemento di raccordo tra i due ordini del sistema, riferendosi simultaneamente ad entrambi i livelli a cui lo stesso termine X appartiene legittimamente.
Ad esempio in un sistema linguistico: « “sostantivo” è un sostantivo» indica che il termine “sostantivo” ha valenza sia come stringa ben formata a livello grammaticale (N), ma anche che fa parte di una frase dotata di senso a livello semantico (N+1). Non sono invece considerate valide le affermazioni «“verbo” è un verbo» o «“cacciavite” è un cacciavite» E’ chiaro che il giudizio di validità dipende dal soggetto che lo formula in relazione con la comunità di cui fa parte, che stabilisce le regole grammaticali, il campo semantico e le regole di validità del giudizio. Ma ciò non è l’oggetto di queste righe: si veda qui come la penso in merito.
E’ importante a questo punto notare che la capacità di far fare un salto dal livello N a quello N+1 non sta in qualche proprietà delle varie X, e nemmeno della stringa “è un” ma nelle virgolette. Infatti se scrivo «sostantivo è un sostantivo» o «cacciavite è un cacciavite» (senza virgolette) non ottengo lo stesso risultato, ma dei truismi o enunciati ai quali è difficile attribuire un senso.
Al posto delle virgolette posso usare altre notazioni, come «/segno/ è un segno» oppure con minor efficacia, usando qualche accorgimento tipografico come l’italico o il maiuscoletto, ecc: «stringa è una stringa» ,
In questo genere di espressioni il primo X, quello tra virgolette, diventa argomento (funtile) del secondo X interpretato come funzione. Questo genere di espressioni sono ricorsive («“ricorsivo” è ricorsivo») e autoreferenziali, ma per “funzionare” richiedono l’operatore virgolette (o un suo equivalente) che consenta di compiere il “salto” da un livello N a quello N+1 e viceversa, e porre in relazione i due livelli. Le virgolette diventano in questo contesto un segno di segno, ovvero avvisano l’interprete-lettore che ciò che racchiudono è un segno e che ad esso va applicato un processo di astrazione di contesto che porti l’attenzione ad un livello inferiore: va considerato in senso letterale e non interpretato. Le virgolette sono un metasegno.
Peraltro in questo stesso testo ho dovuto usare anche i segni “« »” per consentire al lettore di effettuare la stessa operazione di isolamento per intere frasi nel contesto del presente discorso.
L’operazione di Magritte (che ritrae dei nudi d’oggetti) nel celebre “la trahison des images” è quella di porre le virgolette senza le virgolette usando il pennello e ritraendo l’oggetto “tradito” in vario modo: dalla sua immagine (quella della pipa dipinta), dall’immagine dell’immagine (la parola “pipa”) e dall’immagine dell’immagine dell’immagine (il quadro di Magritte stesso). Possiamo chiederci, in questo articolato contesto, se «“pipa” è una pipa?»
Scienza e democrazia · 2008-10-28 by mmzz
La scienza può essere vista come un processo e in particolare un metodo condiviso concepito per produrre affermazioni condivise. Richiede come presupposto la formulazione di un linguaggio specifico condiviso per consentire la comprensione delle affermazioni prodotte e del metodo stesso. E’ importante comprendere che quella del metodo è una condivisione di secondo ordine rispetto a quella delle affermazioni.
Infatti il metodo e il linguaggio costituiscono il codice attraverso il quale vengono prodotte le affermazioni, le stesse vengono valutate e infine vengono selezionati i soggetti in grado di comprendere e produrre le affermazioni condivise per una determinata comunità.
Diversamente ciò che chiamiamo democrazia tende a produrre affermazioni condivise da una maggioranza della popolazione attraverso metodi generalmente non avversati da alcuna minoranza significativa in modo troppo attivo. Il linguaggio è quello comune e non necessita di particolari convenzioni. Esiste un processo di second’ordine che definisce delle “regole del gioco” che è un prodotto del gioco stesso. Gli attori vengono selezionati dalla maggioranza in base alla loro abilita’ di produrre affermazioni condivise e in base alla loro comprensione delle regole.
In una degenerazione del gioco democratico, il linguaggio e’ soggetto alla manipolazione ideologica e alla produzione di simbologie-simulacro che non “funzionano” ma che danno l’impressione di farlo. Lo scopo non è quello di produrre affermazioni condivise, ma affermazioni che al contrario non possono essere condivise dalla parte avversa, e che quindi mirano al lock-in identitario di chi vi si identifica, di chi le accetta come codice interpretativo dell’esperienza. Sono affermazioni che non potendo essere abbandonate, possiedono chi le enuncia. Attori,consenso e regole vengono articolati in un sistema contiguo e parallelo a quello della dialettica pubblica, ovvero quello dei partiti e del loro sottobosco.