L'artefice di nomi, l'artefice di cose e l'amnesia della genesi. · 2009-12-12 by mmzz
Chi si avvicina da neofita, come me, allo studio della biologia, non può non restare sconcertato da molte cose. In primo luogo sull’oggetto dello studio: la vita e la materia vivente (sembra un ossimoro). In secondo luogo dalla complessa opera che è il suo affascinante studio.
Della prima, è sbalorditiva la apparente facilità con cui la vita escogita sistemi estremamente complessi, che a noi appaiono come macchine complicatissime e diffcili da comprendere anche dopo che se ne sono svelati i segreti del funzionamento. Percorsi paralleli (“convergenze evolutive”) che portano a funzioni simili in organismi o sottosistemi diversi, o viceversa, riuso di soluzioni già impiegate per funzioni diverse. La vita sembra dispiegare da una parte una sbalorditiva capacità di invenzione e innovazione anche a costo di considerevoli dispendi di energia nell’esplorazione del possibile spazio di soluzioni possibili; dall’altra manifesta delle formidabili capacità di essere efficiente, di conservare e sfruttare le risorse già reperite (non solo quelle materiali, ma anche quelle “informative, cioè di possibili soluzioni a problemi).
Ciò che toglie il fiato quando ci si pensa, è che tutto ciò avviene senza soluzione di continuità da una scala dimensionale che parte dal micron fino a ordini percepibili direttamente. La biologia molecolare rileva organizzazioni sulle scale molecolari che poi si ripetono sulle scale cellulari, che si ripetono ancora a quelle di organismi multicellulari (quali noi siamo), che — volendo procedere oltre la biologia — si organizzano socialmente e diventano oggetto di studio di sociobiologia, etologia, sociologia, politica, organization science , mangement, economia. Analoghi meccanismi di regolazione, “attrezzi”, fenomeni osservati.
Appare evidente a questo punto come vi sia un problema epistemologico: chi studia non può che proiettare sull’oggetto osservato delle forme già note. E situandosi chi osserva, l’uomo, a metà circa della ampia scala dimensionale assunta di suoi molteplici oggetti di studio, applicherà ad esso ciò che già conosce, e conoscerà per similitudini, metafore, isomorfismi, analogie rispetto a ciò che già ha conosciuto.
Foucault coglie il momento storico in cui questo passaggio si compie (les mots et les choses:323): Lorsque l’histoire naturelle devient biologie, lorsque l’analyse des richesses devient economie, lorsque surtout la réflexion sur le langage se fait philologie, […] l’homme apparait avec sa position ambigue d’objet pour un savoir et de sujet qui connait: souverain soumis, spectateur regardè […]
E qui veniamo allo studio della biologia.
Due cose in particolare mi hanno colpito. L’attuale biologia, quella molecolare, va alla scoperta di codici che non conosce e che scopre o presume esistano: genetico, epigenetico, della proteomica, segnalazioni tra oggetti diversi. Attraverso l’osservazione del comportamento della materia vivente, nella sua elementare decomposizione in catene di amminoacidi, proteine, molecole complesse, polimeri, mira alla costruzione di stringhe (di genoma, di sequenze metilate, acetilate ecc, di successioni di proteine) o diagrammi che ne rappresentino le configurazioni, le architetture, le strutture spaziali. In questo assomiglia, specularmente, all’ingegneria, che invece parte dalla costruzione di diagrammi, stringhe (formule, sequenze di istruzioni per uomini, macchine o calcolatori) per arrivare alla costruzione di oggetti i cui comportamento siano noti, prevedibili e affidabili, siano essi un ponte, una casa, una ferrovia, un programma per calcolatore. Vista in questo modo lo studio biologico della meteria vivente è una immensa opera di ingegneria rovesciata, di reverse engineering, o viceversa, l’ingegneria (intesa come applicazione dell’ingegno umano, in senso lato) come una immane riproduzione dei meccanismi già messi in atto dalla vita su scale dimensionali inferiori: abbiamo pompe, meccanismi di trasporto, strutture che danno resistenza (alla trazione o alla tensione) o flessibilità, canali, “centrali” e “fabbriche”, traduzioni tra codici diversi o trascrizioni, eccetera.
La seconda osservazione sullo studio della vita, nella quale si riassumono le prime due, riguarda i nomi, la terminologia. Nel conoscere siamo costretti a distinguere e quindi a dare dei nomi (“l’artefice di nomi distingue gli oggetti quando li scopre” e dunque si fa legislatore, dice Platone per bocca di Socrate nel Cratilo). Nel distinguere gli oggetti di studio e nel dare loro dei nomi ci affidiamo necessariamente a ciò che già conosciamo.
Ora, qui si pone una importante differenza. Il nome posto da chi costruisce un sistema secondo il proprio ingegno è molto diverso dal nome di chi osserva un sistema che ne scopre gli elementi. I codici che regolano un sistema e gli elementi che lo compongono sono conosciuti in molto diverso se se ne scrivono le istruzioni, come fa un programmatore, o se se ne scoprono le intricatezze, come fa il biologo. Pertanto anche i nomi saranno diversi. Infatti i nomi dell’ingegneria si rifanno convenzionalmente alla funzione dei componenti e dei codici in modo da rispecchiare l’intenzione di chi li progetta: un giunto si chiama così perchè tale è la sua funzione. E anche se la genesi di alcuni di questi nomi si perde nel tempo (perchè “giunto”, “dado”, “vite”, o “tabella”, “routine”, “funzione”?) tuttavia è indiscussa la funzione di un oggetto quando a questo è assegnato quel dato nome.
I nomi della biologia, invece, raramente si rifanno a funzioni note, proprio perchè la funzione dell’oggetto studiato è spesso proprio ciò che chi lo studia ignora e desidera scoprire. Infatti i nomi dei componenti dei sistemi viventi (geni, organelli, proteine, …) possono rifarsi alla forma (catenina, tubulina, globulina, elica, foglietto), alla composizione (secondo la teminologia chimica), alla struttura di appartenenza (le porine fanno parte di pori, ecc), a nomi più o meno di fantasia (come Sonic Hedgehog, e molti altri), al rapporto con altri oggetti (SoS: “Son of Sevenless” o BoSS: “Bride of Sevenless”) o anche alla funzione (quella osservata al momento della scoperta: claudina, occludina, coating protein, polimerasi, RNA messaggero, ecc). Così può accadere che una volta scoperta una funzione e trovato un nome, vengano scoperte successive funzioni per lo stesso oggetto, ma il nome ormai è dato, oppure che nomi per uno stesso gene in specie diverse siano diverse o viceversa. Il problema della nomenclatura in biologia è noto, ma pare irrisolvibile .
Questa inesattezza ed ambiguità dei nomi deriva dal desiderio di scoprire un sistema senza la conoscenza che ne ha il progettista, ma con la terminologia e l’approccio epistemologico di chi invece lo progetta. E’ un problema che non tocca l’ingegnere che progetta un sistema, che ha a che può attingere a una libreria di termini sempre esatti, univocamente definiti nella loro funzione, denominazione, morfologia, rapporti con altri elementi nel sistema. Sempre Foucault (les mots et les choses: 132) scrisse Mais si tous les noms etaient exacts, si l’analyse sur laquelle ils réposent avait été parfaitement réflechie, si la langue etait “bien faite”, il n’y aurait aucune difficulté a prononcer des jugements vrais, et l’erreur, dans le cas ou elle se produirait, serait aussi facile a déceler et aussi evidente que dans un calcul algebrique.
L’associazione epistemologica tra macchina e sistema vivente ha radici lontane che di cui testimoniano Hobbes, Descartes e La Mettrie (“l’homme machine”, 1748) che applicano all’organizzazione del vivente la metafora della macchina (cioè conoscono la vita atraverso la conoscenza della macchina e le parole ad essa collegate). Il più diffuso testo di biologia cellulare, molecular biology of the cell (Alberts et al.), definisce il muscolo cardiaco una Precisely Engineered Machine , il termine “mechanism” ricorre 311 volte su circa 1300 pagine e quello “machinery” 115. Ma anche l’ingegneria, specie quella di sistemi complessi ha poi attinto a piene mani dalla terminologia biologica: si pensi a Wiener, “Cybernetics or Control and Communication in the Animal and the Machine”, o alle applicazioni sistemiche delle ricerche del biologo von Bertalanffy che pubblica una “teoria generale dei sistemi”, fino a Ross Ashby con “Design for a brain”, eccetera. La metafora meccanicistica e quella organica si sono fuse e hanno permeato i rispettivi campi e quelli di altre discipline (in modo più evidente economia e management). La rivoluzione portata dalla tecnologia digitale ha portato alla invenzione di nuove parole applicate poi in svariati ambiti. A chi studia la biologia oggi non può sfuggire il continuo ricorso a metafore meccaniche, industriali, sistemiche con terminologie ingegneristiche, come “meccanismo” “apparato” “machinery” “segnale”, così come l’ingegneria, specie informatica, ricorre sempre più apertamente alla biologia e alla ricerca biologica.
Ritornando alla riflessione sui nomi, quelli della vita e quelli dell’ingegno, vi è tuttavia una profonda differenza tra l’artefice di cose di quali si conoscono i nomi, e l’artefice di nomi per oggetti che si scoprono via via. Questa differenza rispecchia la diversa conoscenza della genesi degli oggetti del proprio sapere. I primi, quali possono essere ingegneri, programmatori, architetti, conoscono la genesi dei progetti già compiuti. Sappiamo che in qualsiasi momento possiamo chiedere loro conto a loro di come si sono composti, stratificati ed innestati i sistemi, i programmi, gli edifici più complessi. Il biologo invece continuamente lavora nella doppia oscurità di ciò che deve scoprire e di come sia avvenuto che ciò che va cercando si sia costituito. La filogenesi, la stratificazione delle successioni di eventi, ostacoli, fallimenti, percorsi seguiti e percorsi alternativi, è un problema di secondo ordine costamntemente sullo sfondo rispetto al primo, quello di scoprire “come funzionano” i sistemi che si sono evoluti.
Bourdieu (per una teoria della pratica: 213) scrisse che “l’amnesia della genesi […] non può che invocare i misteri dell’armonia prestabilita o i prodigi della concertazione cosciente”. In effetti la riflessione sulla vita è più che mai il luogo in cui l’assenza di una filogenesi nota suggerisce il ricorso a costruzioni metafisiche (anche in questo caso, con vari nomi: ultimo quello dell’Intelligent design). Se un domani remoto perdessimo (come sembra probabile che avvenga) ogni memoria di come abbiamo costruito un Internet che si fosse evoluto al punto da non richiedere più alcun intervento umano, immancabilmente la sua genesi verrebbe attribuita non allo sforzo prolungato di molti agenti indipendenti guidati dalla capacità di correggere i propri molteplici errori e dalla somma di migliaia di fallimenti per ogni singolo successo, ma dal disegno di una sola mente illuminata, forse sovraumana.
Va detto che, per quanto riguarda l’origine della vita, l’ampiezza del mistero e la profondità del tempo in cui esso si immerge richiede comunque il ricorso a una qualche forma di fede, anche in quella delle forze della selezione e dell’evoluzione.
Gli aeroporti, i campi, e la libertà. · 2009-08-19 by mmzz
L’aeroporto, come tutti i porti, è punto di confine, di rottura della routine (salvo per i pendolari), una accumulazione di viaggi. Le partenze, in particolare, sono lo spazio in cui un adesso/qui necessariamente farà spazio a un dopo/altrove. Prospetta potenzialità, novità, inizio di qualcosa, rischio, anche oltre al volo in sé.
Annah Arendt dice che c‘è una contiguità concettuale e semantica tra “libertà” e “inizio”. Tra iniziare qualcosa ed essere liberi.
La libertà come inizio è diversa dal libero arbitrio, dice la Arendt, e si rifà a una tradizione concettuale e categoriale antica, per cui il greco archein significa cominciare e governare, dunque essere liberi e il latino agere significa avviare qualcosa, dunque scatenare un processo.
Voglio aggiungere che questa libertà di iniziare si articola non solo in un potere individuale, una capacità soggettiva, una abilità personale; ma anche un fatto sociale, collettivo, abilitante. Non è solo un potere-posse, ma anche un potere-licet, un iniziare qualcosa che la collettività in cui sono inserito mi consente, se non incoraggia.
L’aeroporto perciò, e specialmente le partenze, sono luoghi emblematici di un inizio, sia esso un andare via che un ritornare (che è anche un ri-inizio). E anche il volo da sempre è sogno e segno di libertà suprema, scioglimento del vincolo che ci inchioda alle due dimensioni della superficie. Oltre ad essere dei non luoghi, gli aeroporti sono delle concentrazioni di inizi e i voli aerei carichi di libertà.
Ma se sono libero di iniziare un viaggio, e perfino di lasciare il paese, da un aeroporto, non è solo per il complesso di mezzi tecnici e organizzativi che mi consentono di salire su un aereo che si staccherà da terra, ma perché posso farlo legalmente e nessuno me lo impedisce. E qui, nei meccanismi e nei dispositivi in cui si rivelano i limiti di questa libertà, si rivela il potere di chi ne dispone.
I limiti sono conosciuti: posso volare solo se possiedo documenti identificativi ed autorizzativi, dopo identificazione anagrafica, perquisizione, assoggettamento a limiti severi su ciò che posso portare con me. Il viaggio deve essere, se supera un confine di Stato, implicitamente o esplicitamente autorizzato.
Ma a questo punto occorre fare un passo indietro, all’11 settembre 2001 e all’evento delle torri gemelle. Evento a partire dal quale molti di questi vincoli sono iniziati o si sono inaspriti, proprio perché il simbolo emblematico della libertà di movimento era stato usato come proiettile e scagliato contro un altro simbolo, quello della libertà di commercio globale che costituisce la forza della prima (all’epoca, unica) superpotenza: il world trade center. L’audacia e l’efficacia del gesto criminale fu non solo quella organizzativa, ma anche simbolica: il semplice fatto che un attentato del genere potesse essere concepito, colpendo sul proprio suolo (altro emblema, quello della sovranità) una nazione che mai aveva subito un tale insulto.
A questo triplo attentato, assai non convenzionale, la risposta è stata altrettanto non convenzionale. Non solo per l’attacco militare all’Afghanistan (in sé piuttosto convenzionale), ma piuttosto per l’instaurazione di alcune istituzioni da subito criticate, ma solo recentemente messe in discussione: l’istituzione, fuori dalla giurisdizione statunitense e fuori dal diritto internazionale, di un campo di detenzione a Guantanamo, del concetto di enemy combatant , della pratica della extraordinary rendition (le catture illegali e i viaggi —aerei— in luoghi in cui anche la tortura è legale), di attività di sorveglianza elettronica senza autorizzazione ed infine per l’ammissione che il governo statunitense avrebbe potuto mentire per motivi di sicurezza.
Giorgio Agamben, 6 anni prima, aveva descritto questa coesistenza di legge e anomia in “Homo Sacer”, rifacendosi alla dottrina dello stato di eccezione di Schmitt, stato in cui la norma si applica all’eccezione disapplicandosi, ritirandosi da essa, per cui il sovrano decide sulla strutturazione normale dei rapporti di vita, e per cui la legge vige ma non significa. Lo stato di eccezione espone la nuda vita di chi vi è soggetto, in quanto di tutto il resto è stata spogliata e null’altro che questa è in discussione, in quanto nemmeno la vita in sé è protetta e si trova sospesa in una condizione di assenza di garanzie per cui l’imperium del magistrato non è che la “vitae neciscque potestas” del padre estesa a tutti i cittadini. Per Agamben è il campo, quello di concentramento, poi quello di sterminio in cui “vige” lo stato di eccezione, la sigla della modernità. Il luogo in cui si nasconde l’esposizione della nuda vita, spogliata di tutto il diritto, alla volontà del sovrano. Possiamo osservare come la passione che anche l’Italia sta sviluppando per questi “luoghi protetti di monotonia disciplinare” (Foucault) testimonia quanto la modernità stenti a concludersi e trascini con sé i suoi meccanismi.
Un secondo passo indietro. Nel 1975 Foucault scrive “Surveiller et punir” sulla nascita delle pratiche penali e punitive che accompagnano la nascita dello stato moderno. Stato, per Foucault, disciplinare. L’autore spiega come coesistano nel XVIII secolo tre fenomeni punitivi. Quello tradizionale, in cui il sovrano, attraverso il supplizio —pubblico ed efferato— marchia il condannato con il furore della sua vendetta, con un cerimoniale nel quale riafferma la sovranità lesa dal crimine. Poi quello dei giuristi riformatori, che volevano instaurare una pena pubblica che fosse rappresentazione altamente significativa, che mirasse sia alla riqualificazione del criminale che l’educazione delle masse, attraverso pene che fossero un “insieme codificato di rappresentazioni”. Ed infine quello delle istituzioni carcerarie, in cui un meccanismo amministrativo applica una disciplina al corpo del carcerato, oggetto di coercizione, reso “corpo docile”. Quest’ultimo filone di pena (quella che godrà poi del maggior impiego) si inserisce in una pratica di grande successo nel corso del XVIII secolo, quella della meccanizzazione e del corpo umano, sia in quanto oggetto di leggi descrittive (anatomico-scientifiche) che prescrittive, come oggetto di potere attraverso l’imposizione della -disciplina_. Questa ripartisce gli uomini in ranghi e classi in uno spazio codificato e cellularizzato, ne codifica le attività, ne cumula le forze.
Quale collegamento tra le due riflessioni? In primo luogo, in merito all’ 11 settembre, la riaffermazione della sovranità lesa dall’attacco terroristico non poteva limitarsi alla punizione —fuori dai confini— di un colpevole. Occorreva, —oltre qualsiasi confine— attraverso la formulazione di un campo di anomia centrato in Guantanamo ma estendibile in ogni parte del globo (grazie agli aerei), riaffermare la sovranità stessa con l’unico atto veramente sovrano secondo Schmitt: la sospensione di ogni legge. Ma come condurre la pena? Non con l’efferata vendetta di un pubblico supplizio il cui scopo è suscitare terrore e nemmeno con l’intento di recuperare o ricondizionare il nemico, ma con l’instaurazione di una rigorosa disciplina, di una codificazione della sospensione della legge attraverso i regolamenti. La vita di Camp Delta è regolata da un manuale di 238 pagine (pubblicato da wikileaks.org) che sotto il nome di “procedure operative standard” meticolosamente codifica tutta la vita del prigioniero, dal suo arrivo al behavior management mirato a renderlo dipendente da chi lo interroga.
Ma la disciplina non si ferma a Guantanamo. La tecnologia di potere che consiste nell’imposizione di una disciplina, di una routine meccanica ad un corpo, è stata estesa, per tutelare la sicurezza del volo, anche fuori dallo spazio di anomia ed è entrata anche nella vita normata e tutelata dal diritto dei cittadini. Ciò è visibile più che mai proprio negli spazi di frontiera che sono gli aeroporti in cui la tutela si indebolisce ed aumenta la densità del potere statale, e —emblematicamente— alla libertà del volo si affianca la pesante disciplina imposta ai corpi che vogliono volare. Le pratiche di sicurezza rigorosamente codificate sono procedure operative standard a cui qualsiasi cittadino come corpo deve assoggettarsi. Procedure che appunto erano quelle una volta esclusivamente destinate ai criminali, e che oggi sembrano ricordarci che lo Stato, prima di lasciarci iniziare il nostro libero volo, detiene la sovranità, la potestas. Ecco allora che —in fila— svuotiamo le tasche, ci togliamo scarpe e cintura, siamo perquisiti. Macchine sono capaci di frugare nel nostro bagaglio e controllano il nostro corpo, con l’ausilio della nuova tecnologia X-ray backscatter possiamo essere spogliati nudi agli occhi di una persona per noi invisibile. A seconda della nostra destinazione può accadere che le nostre impronte digitali ci accompagnano con il passaporto biometrico e siamo forse stati sottoposti a una qualche forma di esame in merito alle ragioni del nostro viaggio. Ci viene impedito di portare con noi dell’acqua da bere o altri liquidi (se non in misure prescritte) e altri oggetti. Ecco che il viaggio, l’emblema della libertà di iniziare della Arendt, viene tassato da una piccola pena, da un assaggio di colpa, da pratiche di domination venate di sfumature sessuali per alcuni imbarazzanti, per altri oltraggiose (si veda questa reazione: Looking You Over, With a Shameless Gaze. Sharkey, J., The New York Times 2009-04-14).
Confrontiamo questo scenario con quanto riferiva Sefan Zweig nella sua autobiografia Mondo di ieri – ricordi di un europeo: Prima del 1914 la terra apparteneva a tutti: ognuno andava dove voleva e vi rimaneva finché voleva. Non c’erano permessi né concessioni né lasciapassare. […] Si ignoravano i visti, i permits e tutte le seccature; gli stessi confini che oggi, per la patologica diffidenza di tutti contro tutti, sono trasformati in reticolati e a base di doganieri, poliziotti e gendarmi non significavano altro che linee simboliche, che si potevano passare con la spensieratezza del meridiano di Greenwich.
encoding-decoding · 2009-07-22 by mmzz
Il processo semiotico essendo necessariamente legato alla comunicazione, è profondamente coinvolto nel processo di codifica/decodifica. Infatti la comunicazione non solo consente al segno di migrare, ma rappresenta la profonda ragion d’essere del segno, il quale esiste in quanto esistono una pluralità di soggetti per i quali un significante deve tradursi in significato. In ultima istanza, nella comunicazione il significato risiede nel codice (e non il senso, che eventualmente deriverà dall’uso che del segno farà il destinatario), e il significante sopravvive nel segnale trasmesso.
In modo più formale:
Premessa:
- Un segno è composto da un significato e un significante (s.to | s.te).
- Il s.te, anche se alla fine di una lunga catena di codifiche innestate, è sempre materiale, così come lo sono i sistemi che li ospitano e comunicano tra loro.
- Il s.to, invece, è sempre immateriale. Ogni s.to, per esistere, deve essere sempre legato ad un s.te.
- Non indaghiamo né ci interroghiamo sulla natura, funzione, proprietà del s.to. Non ci interessa ad esempio sapere se il s.to abbia un senso in ciascun sistema, e nemmeno quale sia la forma materiale del s.te che internamente ai sistemi comunicanti è associato al s.to: è un s.te privato del quale rispettiamo la privacy.
- La comunicazione è il trasferimento di uno o più segni da un Mittente (M) a un Destinatario (D).
- La comunicazione avviene grazie a un supporto materiale, presente nell’ambiente comune a S e D, a cui hanno accesso entrambi. Può essere persistente nel tempo, adatto per la comunicazione asincrona (ed avere le caratteristiche di un supporto in senso proprio) oppure essere volatile e prestarsi alla comunicazione sincrona (in tal caso si usa il termine canale). Il supporto può degradare il segnale per effetto del rumore.
- Un codice è una collezione di segni C(s.to | s.te) condiviso tra uno o più M e D. Si divide in:
- Codice S.to-Materia (CM): a un dato st.o corrisponde un st.e materiale, una determinata presenza o assenza elementare di materia o energia nel canale. La forma del segno presente nel CM è (s.to | materia).
- Codice St.o-Struttura (CS): a un dato s.to corrisponde un s.te strutturale costituito da un ordine sincronico di materia o energia nel canale, per meglio dire una sequenza ordinata di s.te materiale. La forma del segno presente nel CS è (s.to | struttura della materia). Sinonimo di formato o forma.
- Codice S.to-Protocollo (CP): a un dato s.to corrisponde un s.te protocollo, ovvero una sequenza di azioni sul canale da parte di M e D che comportano l’immissione di s.te materiale e strutturale, incluse quelle che comportano la creazione, mantenimento e interruzione del canale stesso. La forma del segno presente nel CP è (s.to | azione).
L’insieme dei significanti compresi nei codici (CM) (CS) e (CP) costituisce l’insieme di segnali che M e D usano per comunicare.
Il procedimento di comunicazione il cui esito è il trasferimento di un s.to da M a D comporta l’attivazione di tre funzioni:
- La creazione, configurazione ed eventuale cancellazione di un canale o un supporto nell’ambiente condiviso.
- La condivisione dei codici.
- direttamente tramite canale ad-hoc e una comunicazione da M a D (o viceversa)
- attraverso l’accesso a un supporto persistente presente nell’ambiente.
- La codifica e decodifica del messaggio
- la Codifica è una funzione di M che trasforma un segno privato di M e ne genera uno pubblico, secondo un dato codice condiviso con uno (o più) D.
Codifica (s.to privato | s.te privato) = (s.to condiviso | segnale) - la Decodifica è la funzione inversa:
Decodifica (s.to condiviso | segnale) = (s.to privato | s.te privato)
- la Codifica è una funzione di M che trasforma un segno privato di M e ne genera uno pubblico, secondo un dato codice condiviso con uno (o più) D.
Dopo la codifica e prima della decodifica (nel corso della comunicazione) la parte materiale del messaggio, ovvero il segnale s.te, risiede sul supporto mentre il s.to è associato al s.to del codice.
Ne consegue che una comunicazione sarà efficace quando (1) sia possibile inviare un segnale materiale senza che il rumore presente sul supporto possa danneggiarlo al punto che anche gli accorgimenti messi in atto a livello di codice (ridondanza, ecc.) ma anche se (2) i codici sono effettivamente efficaci nel tradurre i significati, se rimangono inalterati, se non vengono manipolati o non si deteriorano nel corso della comunicazione (specie nel caso di comunicazioni asincrone a distanza di molto tempo).
reciprocità tra comunità FOSS e imprese · 2009-06-18 by mmzz
Convegno Open source Systems 2009.
Si è usata spesso la parola “ecosistema”, e dei rapporti che ci sono tra le comunità open source e le imprese che le usano o cercano di farlo per produrre il software col quale fanno business. Il termine “usare” è esplicito ma corretto almeno in alcuni casi notevoli e sempre più frequentemente. In certi casi è esplicito il tentativo di controllo delle community da parte delle imprese. Volendo sarebbe perfettamente possibile dare del fenomeno una lettura marxiana (meglio ancora nella chiave di Braudel). L’industria del software, prima teme e combatte l’open source che minaccia i
modelli consolidati, poi capisce come funziona e cerca di controllarlo perché si rende conto che ha dei vantaggi, (o comunque accetta che è così che va il mondo). Poi lo ingloba nelle sue logiche, ma non siamo ancora a questo punto.
Perciò occorre parlare, riferendosi ai rapporti tra imprese e open source, in termini di sostenibilità: come devono essere perché possano essere stabili e durevoli? Va tenuto presente che in questa fase: 1) il mercato del software è composto anche da molti prodotti OS, che in alcuni casi lo hanno di fatto creato, dal momento che prima c’era monopolio; 2) molte imprese ormai ci sono
fino al collo e fino al 40% dei componenti delle principali community lavorano per/sono pagati da/sono finanziati da] imprese; e 3) qualche impresa comincia preoccuparsi che una community che controlla un prodotto per lei strategico possa introdurre instabilità nei suoi piani.
Si intuisce dove vado a parare. Come può tenere tutto questo? Ci deve essere un contratto, o almeno un vincolo più o meno tacito tra i vari elementi della catena di produzione: le imprese vedono le community come una specie di subcontractor o outsourcer dotato di molta autonomia, a cui “affidano” i progetti per loro strategici o con partecipazione diretta o con sostegno finanziario. Ovviamente cercheranno di controllarle sempre di più. Le comunità accettano il coinvolgimento delle imprese che sono sia loro utenti che finanziatori che contributors (forniscono codice), a condizione di mantenere una certa autonomia.
Infine gli individui che partecipano ai progetti agiscono per motivazioni intrinseche e/o estrinseche. Potrebbero aver iniziato a contribuire per motivazioni intrinseche (imparare, senso di utilità, having fun) ed essere poi finiti sul libro paga di qualcuno o viceversa essere assegnati ad un progetto
o.s. dal datore di lavoro abituale. Vorrei aggiungere una mia congettura: la community funge da “identity provider” per gli individui, che riescono a negoziare in quel contesto sociale una identità personale stabile che sta alla base delle remunerazioni intrinseche e dei driver etici) e poi accettano di essere remunerati anche estrinsecamente (skei). Ci sarebbe molto da lavorare su questo punto.
Inutile dire che in questo ecosistema ci sono equilibri molto molto delicati (a mio avviso basati sulla reciprocità cfr K.Polany ) e quando saltano tutti si arrabbiano moltissimo: le imprese che non possono prevedere il comportamento delle comunità che producono il loro prodotto strategico, le
comunità che non sanno bene con quali imprese “vanno a letto” e se possono contare sul sostegno che avevano finora; le persone che partecipano, perché ciò che viene messo in gioco è la loro identità.
Sounds familiar? Nella mia realtà lavorativa. le comunità di pratica (o forse solo alcuni elementi di esse) non riescono a negoziare un contratto con le strutture periferiche, mentre riescono a farlo con il centro (con tanto di passaggio alla remunerazione estrinseca). Le strutture periferiche esercitano il potere per [ri]acquistare il controllo che percepiscono di aver perso, temendo che venga compromessa la loro performance. Questo inceppa il processo di produzione e il senso di appartenenza dei partecipanti. Come è possibile rendere sostenibile questo scambio? Con quale reciprocità?
identity providers · 2009-06-10 by mmzz
Si continua a parlare di fine dello Stato e e di globalizzazione, Credo che nella società globalizzata (e probabilmente effettivamente postmoderna) una delle perdite più pericolose è quella di identità. Le modernità, come ha sottolineato Carlo Galli (Spazi politici. L’età moderna e l’età globale, Bologna, Il mulino, 2001.) ha provveduto —attraverso lo Stato— a innescare una negoziazione con l’individuo, garantendo le sue richieste, nella forma di diritti tutelati, e ottenendone sempre maggior potere di influire sulla vita stessa dell’individuo. questo dialogo si articola tra identità ed identificazione: identità individuale, che proviene dal soggetto che vuole veder svilupparsi le sue ambizioni, mettere in atto delle opportunità (che si vogliono sempre più pari tra tutti) e ampliare la propria sfera vitale. Identificazione, da parte dello Stato che necessita di una sempre maggiore prevedibilità di comportamenti, di armonizzazione delle attività dei singoli, proprio in vista dell’ampliamento della loro sfera di diritti.
La tutela dei diritti di tutti comporta la loro sempre più precisa codificazione ed articolazione. L’identità di ciascuno viene di conseguenza compressa dalla necessità della sfera sociale di identificarlo, con l’attribuzione di comportamenti adeguati, di ruoli e di ritmi che non necessariamente sono congruenti con quelli che ciascuno vorrebbe per sé (cf Roland Barthes comment vivre ensemble).
questo fenomeno è visibile anche su scala globale: comunicazione e spostamenti tendono a stemperare le differenze: sempre più persone condividono gli stessi i luoghi, gli stessi comportamenti, comunicano usando gli stessi i codici se non la stessa lingua, mantengono gli stessi stili di vita, gli stessi costumi. Questo appiattimento è richiesto, perché il mondo come macchina funzioni meglio, e fa parte dell’identificazione che travalica il confine nazionale e si fa globale. Questo crea dei problemi all’identità: da una parte qualcuno rifiuta l’identificazione e si rifugia in identità esagerate, caricaturali, enfatizzando aspetti di tradizione e differenziazione in senso ideologico, e porta all’integralismo o meglio al fanatismo. Dall’altra si scatena una caccia al consumo della differenza cioè alla ricerca di ciò che è diverso e ricco di identità, storia, differenza dal resto ce è tutto uguale. Ciò che spicca in qualche modo viene immediatamente consumato, per non dire depredato per essere assimilato e ricodificato in modo da poter fornire una identità a persone che ne hanno fame. In uno spazio indifferenziato ed uniforme, la località e ciò che può esservi ricondotto diventa prezioso: le specialità gastronomiche locali, le denominazioni di origine territoriale garantite contrastano con prodotti che vengono indifferentemente da qualsiasi parte del mondo, in qualsiasi momento dell’anno. Anche le persone vengono da qualsiasi parte del mondo, spinte dal gradiente che c‘è tra mondo globalizzato e mondo da ancora da globalizzare. In questo si rafforza il ruolo dello Stato, che qualcuno diceva in crisi, un ruolo chiave nella fornitura di identità forti, nazionali, territoriali, ideologiche e perfino religiose più che politiche (il dibattito sulle “radici cristiane dell’Europa” lo testimonia).
La religione, come altri fornitori tradizionali di identità, riacquista forza: sempre meno un fatto interiore, diventa tratto distintivo ed identificatorio, con potenziali sviluppi drammatici come avvenuto non tanto tempo fa in ex-Jugoslavia. In futuro, mi aspetto, il bisogno di identità sarà così forte da rivoluzionare anche lavoro e consumi. Già ora i pattern di consumo denotano le persone che li adottano. Vestiti, vacanze, alimentazione, alloggio: tutti questi sono elementi che (da sempre) identificano. Ma la carica simbolica che gli oggetti di consumo rivestono, al di là delle loro caratteristiche merceologiche e della loro qualità, possono spiegarsi solo per il loro straordinario potere di identificare chi li acquista. Lo stesso oggetto, con la stessa funzione, fabbricato identicamente nello stesso luogo con gli stessi materiali, di differenzia con il suo prezzo e grazie ad elementi simbolici come marchi e altro genere di segnali che tutti sono ben addestrati a decodificare, grazie alla scienza del marketing.
Ma vi sono altri importanti elementi di identificazione, come il lavoro svolto, cioè la posizione ricoperta nella catena della trasformazione del sistema globale di produzione e consumo. “Chi sei” corrisponde sempre di più “cosa fai”. In questo spazio normato, la diversità non ha più luogo, se intesa come l’assenza di una catalogazione nella ramificata tassonomia in cui tutta l’esistenza è strutturata; la diversità non può più essere uno spazio indefinito, un “terrain vague” privo di attribuzione: viceversa l’identità ha luogo all’interno di possibilità definite o definibili nelle diverse identificazioni. Invece la diversità intesa come inadeguatezza al contesto normato, una identità che si contrappone alle identificazioni, il codice dissonante, il comportamento inadeguato che pervicacemente non si adegua, ambiguo o polivalente diventa un problema se non una patologia. I margini di tolleranza, il gioco tra ciò che è esplicitamente consentito (in termini di produzione, comportamento, cultura) e ciò che è vietato si stringono. L’immigrato se irregolare è clandestino (e comunque anche se regolare è tollerato e si deve integrare); le mode possono essere stravaganti ma sono codificate, il cibo deve rispondere a disciplinari e leggi, tutto il meccanismo sociale viene definito e orientato nel suo comportamento da norme esplicite. In questo quadro, oltre allo Stato, alle religioni ed al sistema di produzione, qualsiasi soggetto in grado di fornire identità sarà il benvenuto e capace di ritagliarsi un ruolo (e un potere) sull’individuo e sugli altri identificatori. Superati i partiti ideologici, che fornivano ai propri seguaci (e che si fornivano reciprocamente) legittimazione ai due lati di una ideale frontiera, vediamo comunità di appartenenza, elettive e non territoriali, che possono trovare i propri luoghi non solo nel territorio ma nella rete, e che forniscono il contesto e tutti gli strumenti necessari all’individuo per negoziare una sua identità. Un soggetto qualsiasi potrà soddisfare la propria necessità di essere diverso dagli altri e nello stesso tempo adeguato al contesto appoggiandosi a diversi fornitori di identità, degli identity provider che gli daranno tutti gli attrezzi per negoziare e difendere una identità: legittimazione, codici interpretativi, appartenenza, motivazioni, senso di vivere una vita piena. Saranno sette, comunità, supermercati (con fidelity card che saranno carte d’identità), partiti, datori di lavoro tradizionali o comunità di produzione come quella open source, gruppi di azione, sportivi, eccetera. Finora, se non quelli che svolgono attività di lobbying, non hanno fatto sentire politicamente il loro peso, ma in futuro potranno farlo. La merce più preziosa in uno spazio uniforme, il bene più necessario oltre i bisogni primari, sarà l’identità. E chiunque sia in grado, autorevolmente, di dire a qualcuno “tu sei…”, e dargli un posto, un a appartenenza e un ruolo, acquisterà peso e chiederà qualcosa in cambio, così come lo Stato ha chiesto —nella modernità— libertà in cambio di tutela della libertà.
Arte e denaro, il valore di una performance. · 2009-05-23 by mmzz
Paolo Fabbri ci ha parlato di una semiotica della moneta. Partendo da un testo di Rastier ha sottolineato come sia la transazione a attribuire il valore, più che una qualità propria dell’oggetto denaro. L’argomento è stato efficacemente sostenuto descrivendo l’attività dell’artista J.S.G Boggs, il quale afferma che “money is an abstraction, the transaction is real” e sostiene e dimostra questa affermazione con una performance artistica: paga disegnando banconote tanto perfette quanto alterate, palesemente finte, firmandole con il suo nome, convalidandole sul retro e dimostrando—quando vengono accettate in cambio di beni— che pur essendo false non sono disfunzionali e funzionano come banconote. Chiaramente Boggs ha un sacco di problemi con la legge e un buon successo come artista.
Una riflessione in merito a creazione, autorità, economia, scarto, valore.
Rovesciando l’affermazione di Boggs sul denaro sull’arte, si può dire che “art is an abstraction, the performance is real”. Questo getta un dubbio: cosa succede una volta terminata la performance? L’opera d’arte rimane tale anche dopo essere stata creata, o diventa altro, ad esempio oggetto di collezione, feticcio, investimento? Il fatto che la performance creativa si sia esaurita lascia qualcosa sull’oggetto, qualcosa che vi aderisce nella sua materialità oggettiva, ma che non è più la performance immateriale. Questo qualcosa non può garantire di per se che la performance creativa sia realmente accaduta, che quell’oggetto d’arte di sia manifestato come frutto di quella specifica performance, della quale qualcuno può testimoniare. Questo è tanto più vero dopo che anche l’opera d’arte è entrata “nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” (Benjamin). Si manifesta quindi l’esigenza di un testimone autorevole della performance, che garantisca che questa è avvenuta storicamente. Nel caso della banconota lo Stato testimonia autorevolmente sulla autenticità della stessa con il sostegno di durissime leggi. In realtà non fa altro che certificare la conformità di quella specifica copia (la banconota, con il suo numero di serie) all’originale di un’opera d’arte, priva di numero di serie, della cui performance creativa ormai si è persa memoria e interesse, e di cui con ogni probabilità è stato distrutto anche l’originale.
Boggs “giocando” con ironia denuncia la sostituzione della performance con il certificato, la garanzia; la banconota è solo un supporto per la performance (il disegno di Boggs) o del certificato (la banconota “vera”): il valore della performance che crea l’originale viene sostituito dal “valore facciale” apposto sul supporto senza valore di una copia tra milioni, che viene garantito come conforme all’originale. Ed è proprio questa autenticazione che consente la transazione, in base alla fiducia nell’autenticatore.
Ma autenticità e riproduzione non vanno d’accordo, secondo Walter Benjamin: L’autenticità di una cosa è la quintessenza di tutto ciò che, fin dall’origine di essa, può venir tramandato, dalla sua durata materiale alla sua virtù di testimonianza storica. Poiché quest’ultima è fondata sulla prima, nella riproduzione, in cui la prima è sottratta all’uomo, vacilla anche la seconda, la virtù di testimonianza della cosa. Certo, soltanto questa; ma ciò che così prende a vacillare è precisamente l’autorità della cosa. Ciò che vien meno è insomma quanto può essere riassunto con la nozione di “aura”; e si può dire: ciò che vien meno nell’epoca della riproducibilità tecnica è “l’aura” dell’opera d’arte. Il processo è sintomatico; il suo significato rimanda al di là dell’ambito artistico. L’aura, ciò che sopravvive alla performance creativa dopo che questa si è esaurita, ha dei problemi con la riproduzione, e viene persa con essa. La banconota emessa da un istituto di credito centrale, essendo una riproduzione massiva di un’opera creativa dell’artista/artigiano che l’ha disegnata un tempo, ne è completamente priva. Come abbiamo visto, il suo valore proviene dalla garanzia dell’istituto, dello Stato, dalla minaccia delle sanzioni. Al contrario la banconota di Boggs ne è carica, sotto forma di valori simbolici legati all’autore, alla sua performance, al significato di questa e alla sua connotazione politica, alla persistenza della performance, legata anche al rischio di infrazione delle leggi, che in qualche maniera ne legittima l’illegittimità e certifica anche la trasgressione, oltre alla ottusità e mancanza di umorismo delle istituzioni. Perciò viene “accettata”, cioè ad essa viene attribuito lo stesso potere di essere scambiata con un bene: è pregna di autenticità in quanto emblematicamente opposta alla replica seriale, che ne è priva. Al contrario di quanto accade con la banconota autentica, ciò che viene scambiato non è la garanzia di una remota performance che non interessa a nessuno, ma la viva testimonianza di aver assistito alla performance di Boggs.
Il fatto che la banconota di Boggs, così come una qualsiasi opera d’arte, sia accettata come tale (ma anche come banconota) è dovuta in primo luogo al fatto che Boggs “è un artista” e come tale è legittimato a produrre artisticamente e anche a trasgredire “per mestiere”. Ma vi è un altro motivo, (emerso nel corso del seminario) da collegarsi con la “lotta per il riconoscimento” di un oggetto che viene socializzato.
Fabbri ha evidenziato i tre livelli di valore del valore (valenza o meta-valore): (1) Dell’oggetto in rapporto ad altri oggetti (2) dalla sua relazione con un soggetto (3) dalla sua rilevanza intersoggettiva, nel momento in cui si pone tra due o più soggetti. L’oggetto opera d’arte, così come l’oggetto banconota, figuratamente “lotta” per un riconoscimento che emerge dalla sua interazione con soggetti ed oggetti: il fatto di essere prodotto da un artista non basta. Questa lotta può manifestarsi come una identificazione dell’oggetto da parte di un dato ambiente, l’attribuzione ad esso di un senso condiviso, un significato politico, una ideologia, una rilevanza costante in relazione ad un contesto, un insieme di credenze condivise ad esso legate. Al fine di chiarire questa lotta, la tripartizione proposta da Fabbri potrebbe essere messa in relazione con la tripartizione che A.Honneth (in La lotta per il riconoscimento) attribuisce al riconoscimento intersoggettivo, fondendo filosofia hegeliana e la psicologia di Mead (o forse cercando di fondare questa su quella). I tre stadi del riconoscimento intersoggettivo sono: emotivo — giuridico — etico. Trasponendo arditamente il framework di Honneth potremmo dire che l’oggetto artistico (così come la banconota) nasce per soddisfare una esigenza primaria (creativa: la performance o di scambio: l’autenticazione), poi si carica di rispetto di sé e ottiene un riconoscimento giuridico (la critica apprezza l’opera, le istituzioni riconoscono la banconota), infine questo rispetto viene generalizzato e diventa un fatto sociale scontato e “migra nel senso comune” diventando l’univers naturel qui va de soi (Barthes).
Cade a proposito quanto ho già scritto sui nudi d’oggetto. Questi sono ciò che Magritte dipinge, oggetti nudi, spogliati di ogni relazione consolidata, del rispetto di sé, del lessico e della semantica famigliare, della rete di riconoscimenti nella quale l’oggetto correttamente socializzato è stato creato ed inserito; Magritte dipinge cioè oggetti desocializzati. Per farlo, dopo averli denudati, li deve ricontestualizzare (ovvero rivestire), operazione analoga a quella di Duchamp con la “fountain” e naturalmente quella di Boggs con le sue banconote: togliere all’oggetto le connotazioni abituali e denudarlo, rivestendolo di nuovi ruoli una volta investito di una diversa rete di relazioni. Uno dei ruoli dell’arte, sembrerebbe, è questo: creare oggetti “autentici” perché testimoniano genuinamente una esperienza primaria (quella creativa) e simultaneamente “falsi” perché scollegati dalle loro relazioni sociali, dal loro comportamento adeguato ed abituale, ovvero “naturale”. Qui ci si potrebbe ricollegare alla tassonomia semplificata degli oggetti di Rastier: corpi naturali, oggetti culturali, e dechets scarti che nascono dalla trasformazione dei primi in secondi.
Sono in disaccordo su almeno due punti: il primo è che pensare al déchet principalmente come scarto di produzione (corpo trasformato in oggetto) e considerare marginale l’oggetto trasformato in déchet (che non è un corpo, in quanto non naturale) non consente di evidenziare un importante proprietà economica del rifiuto. L’oggetto deprivato di valor d’uso (obsoleto, rotto, fuori moda, inutile, imbarazzante, sbadito, …) viene scartato dalla collezione degli oggetti e trasformato in déchet. Questo processo consente la creazione economica di valore per gli oggetti dello stesso tipo superstiti (specie se prodotti in quantità — le copie). Il pezzo da collezione, la rarità, l’oggetto antico spesso è un dèchet sopravvissuto allo scarto. Come ogni archivista sa, lo scarto è operazione simmetrica alla creazione e richiede autorità per essere compiuta.
La seconda obiezione riguarda la presunta naturalità dei corpi. In qualsiasi ambito sociale io non credo che esista una “natura”, ovvero una natura che non sia frutto di una naturalizzazione, per cui ogni corpo, se conosciuto socialmente, viene necessariamente culturalizzato e trasformato in oggetto. Questo è anche il motivo per cui Magritte, Duchamp e Boggs non possono denudare completamente gli oggetti delle loro brame, ma sono condannati a rivestirli, se vogliono rappresentarli. Ogni possesso o percezione è culturale, ogni naturalità è una naturalizzazione, e non è possibile costituire un senso per l’oggetto fuori da un contesto e da una “relazione tra detto e non detto” (Bachtin-Volosinov). Per cui ogni trasgressione di un codice genera —una volta comunicato— un nuovo codice, che se accettato come valuta corrente diventa canone e —una volta naturalizzato— soffre degli stessi problemi di quello appena trasgredito. Perciò non resta che trasgredir tacendo e tacere trasgredendo.
Altre riflessioni fuori da una linea di pensiero precisa:
- Boggs accetterebbe una vera banconota (magari firmata da me), o una fotocopia di una vera banconota, in cambio di una sua finta banconota ma vera opera d’arte?
- La licenze GPL (v2), perno centrale del movimento free software, consente il pagamento in cambio non del software, ma per l’atto di scambiarlo, cioè per la performance transattiva: You may charge a fee for the physical act of transferring a copy, and you may at your option offer warranty protection in exchange for a fee.
- L’arte consiste nell’enunciato performativo, che si esaurisce in ciò che enuncia. Il resto è mercato. A partire dall’apposizione della firma, inutile atto di appropriazione se rivolto alla performance, atto di autenticazione se rivolto a chi non ha assistito alla performance creativa.
- Associare alle tre classi di valenza le tre categorie Peirceiane di primità, secondità, terzietà, considerando la capacità semiotica dell’opera d’arte o della banconota —più che come una lotta— come una proprietà emergente (Emmeche). Dall’oggetto alla relazione alla significazione. Peirce parla di denaro quando descrive la secondità degenerata: An actual dollar to your credit in the bank does not differ in any respect from a possible imaginary dollar. For if it did, the imaginary dollar could be imagined to be changed in that respect, so as to agree with the actual dollar. (CP 532) La polisemicità di “changed” qui è suggestiva: “scambiato” come moneta di scambio o “scambiato” per ciò che non è, o “cambiato”, in modo da accordarsi con il dollaro vero (actual). E’ l’operazione di Boggs.
Uomo di ieri, macchina di oggi, uomo di domani. · 2009-04-21 by mmzz
Due percorsi tra uomo e macchina nel tempo: primo, la macchinizzazione dell´uomo.
- Le macchine che non eravamo ieri e che siamo oggi. L´introduzione della macchina ne rapporti (sociali, di produzione) comporta la macchinizzazione dell´uomo: operaio alla catena, appendici cliccanti del computer, il lavoro alienante. la comunicazione compulsiva via SMS/chat. La realta` virtuale. Deumanizzazione dell´uomo e demacchinizzazione della macchina.
Secondo, la demacchinizzazione dell´uomo (e forse una sua umanizzazione):
- Le macchine di oggi sono le macchine che eravamo noi ieri.
I lavori ripetitivi, faticosi, degradanti che fanno le macchine, una volta li svolgevano degli umani. Se guardiamo alle macchine di oggi, possiamo vedere le macchine che eravamo noi una volta. - Le macchine che siamo oggi sono le macchine che saranno domani. Ogni lavoro meccanico, ripetitivo, automatico, e` candidato alla attribuzione alle macchine un domani.
- Le macchine che non siamo oggi e che saremo domani. Quale attivita` svolgiamo che non consideriamo oggi macchinaria (degna di essere svolta da una macchina) e invece lo sara` domani?
Dove porta questo ragionamento al limite? E` possibile delineare una identita` residua non macchinaria?
Previsione, tempo come sistema e retrocausalità · 2009-04-10 by mmzz
Gli eventi del passato sono causa di quelli del futuro, e li determinano: la retrocausalità, cioè il fatto che un evento del futuro possa causarne uno nel presente, non è ammessa, né in fisica né in storia. Tuttavia posso pensare ad un evento futuro in termini di previsione, cioè immaginarlo, prefigurarlo, e condizionare la mia azione presente in funzione dello scenario che mi sono prefigurato. Posso quindi supporre che a determinare un mio atto presente sia la prefigurazione del futuro, anche se non il futuro vero e proprio. Se mi prefiguro correttamente uno scenario che si realizza davvero, allora gli eventi futuri e la loro prefigurazione in qualche modo si sovrappongono, e posso dire che gli eventi determinati dal mio comportamento possono essere stati in qualche modo “retro“causati dalla previsione. Chiaramente è l’evento presente della mia previsione a condizionare la mia azione futura, ma non si può negare che la prefigurazione, cioè il tentativo di comprendere —anticipandolo nella mente— lo stato futuro dell’ambiente, abbia un carattere di proiezione nel futuro, a condizione di essere efficace. La maggiore abilità nel prevedere il futuro determina una maggiore probabilità di successo nelle proprie azioni. Pertanto una maggiore intelligenza, ovvero comprensione, dell’ambiente aumenta la possibilità che eventi previsti e eventi futuri si sovrappongano: non per nulla la raccolta di informazioni in funzione di azioni politiche e militari future si chiama intelligence.
Quello che faccio è costruirmi un modello dell’ambiente futuro e includere le mie azioni nel modello (ho quindi un modello di me stesso compreso nel modello). Mi pongo, in termini sistemici, come un regolatore del sistema proiettato nel futuro (cf. Conant, Every good regulator of a system must be a model of that system Int. J. Systems Sci., 1970, vol. 1, No. 2, 89-97). Se il modello descrive in modo completo l’ambiente, se è ad esso isomorfico (o meglio omomorfico come dice Ashby, e ne trascura le variabili irrilevanti al successo della previsione), in tal caso modello e sistema modellizzato si sovrappongono, obbediscono alle stesse necessità e determinati in modo uguale. In tal caso, ciò che accade nel modello ora sarà ciò che accadrà nel sistema modellizzato in futuro. Ogni mia azione discendente dall’osservazione del modello è come se fosse determinata dall’osservazione del futuro, ed in tal caso, come se fosse retrocausata. Beninteso vi sono molti limiti a questo approccio: modellizzare un sistema chiuso è cosa diversa dal modellizzare un ambiente aperto, nel quale l’osservatore stesso e le sua azioni future sono comprese. L’imprevedibilità è talmente elevata che l’operazione è soggetta a rischio. Tuttavia l’azione umana, anche quella che assume rilevanza storica, si fonda sulla previsione, più o meno efficace, e sulla costruzione di modelli dell’ambiente futuro. Questo modello “retro“agisce sulle nostre azioni presenti come se l’output del modello fosse un flusso informativo che viene dal futuro.
Si può forse vedere nella storia un sistema di eventi con degli input (dal passato) un thrughput (la trasformazione degli eventi passati in vincoli per il futuro) e degli output che si dirigono verso il futuro e che lo determinano. Tali eventi in un “sistema” sono legati a volte da strutture stabili di relazioni causali (eventi ripetuti e prevedibili) e dei confini che ne descrivono intervalli temporali entro cui tali strutture sono presenti: la periodizzazione identifica proprio tali intervalli e li “riassume” sotto il loro nome, così come la definizione di eventi storici delimitati da confini che prendono il nome di crisi . Pur non essendo ammesso e nemmeno ammissibile la presenza di retrocausalità, il ricorso alla previsione, con la costruzione di modelli di eventi futuri, esercita una pressione sulle scelte presenti, e spesso le determina, come se fossero retrocausate.
Due note conclusive:
- la modellizzazione di se stessi non può che essere incompleta, non potendo includere la previsione dell’evento in corso di previsione. Per quanto completo possa essere il modello che ho di me stesso, non potrà comprendere me stesso nell’atto ci modellare me stesso, per via della ricorsione che questo atto comporta. Da ciò deriva che qualsiasi modello che includa l’osservatore non può che essere incompleto, come anche tutti i modello che lo escludano, visto che non prendono in considerazione l’atto di osservazione compiuto. Perciò non esistono modelli completi e previsioni sicure.
- quando esposto nel punto precedente richiede che il previsore , per essere in grado di prevedere senza essere intrappolato nell’equivalente della semiosi illimitata, effettui una closure ovvero una selezione delle variabili significative che consideri persistenti nel sistema al punto da identificarlo. Probabilmente l’abilità del previsore sta in questa capacità di selezionare gli elementi descrittivi significativi ed escludere quelli irrilevanti, cioè semplificare il modello lasciandolo completo ed efficace,
confini e sistemi · 2009-03-06 by mmzz
ogni limite denuncia l’esistenza di un sistema: pareti cellulari, pelle, muri, vetri, barriere, barricate, confini, linee immaginarie, cerchi magici, difese, mura, grate,
In ciascuno vi è un dentro ed un fuori, Vi sono dei pori, dei mediatori, delle pompe, delle brecce, dei cunicoli, vi è comunicazione con i suoi canali, segnali e codici condivisi che consentono al sistema di interagire con l’ambiente e con altri sistemi, di manifestare un input e un output. Ogni confine e limite è per sua natura una interfaccia, una opportunità di relazione.
L’interfaccia svolge diversi ruoli: 1) delimita spazialmente, 2) definisce funzionalmente, e 3) identifica il sistema e lo segnala, tramite l’esposizione e lo scambio di segni e dei codici per interpretarlo. Nella sua dinamica consente di mantenere la differenza tra dentro e fuori, il che nella maggior parte dei casi significa il continuare ad esistere. Quando il dentro e il fuori si confondono, il sistema è morto. Se invece viene mantenuta la giusta differenza, il sistema vive. Nessun confine è assoluto, totale al punto da non ammettere eccezione: nulla esiste senza essere in relazione.
Il messaggio è una proprietà del canale. Il caso del denaro nel mercato. · 2009-02-25 by mmzz
the media is the message può essere letto anche in un modo diverso, e più materiale, nel senso di _The media is what the message is made of (even if it means much more).
- La variazione di pressione acustica dell’aria fa il suono e la parola
- La variazione di potenziale elettrico nel filo fa il messaggio elettronico, e di campo elettromagnetico nel campo dell’etere quello radio.
- La variazione di concentrazione di un mediatore biochimico in un canale in equilibrio chimico con esso serve a trasmettere un messaggio tra due endpoints
- La variazione di concentrazione di denaro nel campo costituito dal mercato è il mediatore dei messaggi che il denaro di solito veicola. Anche il denaro è un mediatore, ed è perciò che funziona anche da quando ha perso un valore di scambio con un bene tangibile. Funge da mediatore nel sistema economico come una molecola in un qualche sistema biochimico. Lo scambio di calcio tra due cellule non risponde al soddisfacimento di un fabbisogno di calcio per la cellula destinataria, ma alla necessità di trasmettere un segnale secondo un codice condiviso, che è rappresentato dalla molecola o ione in questione. Così anche il denaro ha perso in parte la sua finzione originaria per assumere quella di segno.
Un ‘ltra considerazione che si può fare è che il rumore del canale è necessario in quanto denuncia la presenza dello stesso. Lo spam della mail, il fruscio del telefono, i rumori dell’ambiente dichiarano che il canale è presente. Per il mercato questo ruolo può essere rappresentato dalle inefficienze e rigidità dello stesso. Forse.