Il diritto di natura non prescinde dalla vita · 2009-01-24 by mmzz
Gli autori che parlano di diritto naturale spesso ricorrono ad artifizi, finzioni e narrazioni per cercare di descrivere uno stato ipotetico, necessario per la loro dialettica, uno stato che non esiste o non è mai esistito nella realtà, al fine di definire meglio il diritto naturale come quello che investe la persona che si trova in quello specifico stato. Ritengo che il ricorso a questa finzione derivi da un concetto di natura che esclude l’uomo, e che vede l’uomo erroneamente isolato.
Hobbes ipotizza un uomo isolato, guidato unicamente dalle sue passioni, che nascono e si esauriscono in un singolo individuo, e che sono le sole forze che lo muovono. Rousseau tenta una narrazione fantastica, in cui un ipotetico uomo, solo, erra senza coscienza di sè in uno stato di natura. Rosmini, più raffinato, tenta un artificio, quello dello stato di dissociamento , in cui —come farebbe uno scienziato naturale—, si considera l`uomo scisso in una parte sociale ed in una individuale, analogamente a quanto farebbe uno studioso di anatomia che separa le carni per osservare lo scheletro.
Nelle sue parole: E’ al tutto secondo ragione, che il filosofo proceda qui alla guisa del matematico, cioè che egli esponga innanzi d’ogni altra cosa i diritti umani, astraendo dal fatto della società, non per distruggere questo fatto, ma per considerare prima quello che, almeno per ordine di natura e di ragione, ad esso precede, e da esso è supposto e richiesto, come è supposta e richiesta l’ossatura del corpo rivestito e bellamente ritondato dalle carni.
E anche: Astrarre vuol dire che dividere e considerare una parte, un elemento d’una cosa in separato dall’altro, come se l’altro non fosse (citazioni in Ferronato La fondazione del diritto naturale in Rosmini, 1998, pp.101, 102).
Questa, come le altre operazioni, a mio avviso non è lecita:
In primo luogo è lecito ricorrere all’astrazione riduzionista (che consente di ridurre un sistema complesso fatto di ossa e carni ai suoi componenti) solo rispettando la condizione_ceteris paribus_ , cioè che osservando un componente ogni altro resti immutato. Significa che se voglio analizzare la struttura ossea, questa non cambierà di forma, struttura, proprietà e funzione per il fatto che rimuovo i muscoli e la pelle che la ricopre. Tuttavia la condizione ceteris paribus non è rispettata se inserita nella filosofia rosminiana, che in primo luogo riconosce che l’uomo è animale socievole e sociale, e premette che ontologicamente la socialità è imprescindibile dall’uomo, e anzi lo pervade nella sua essenza, ne è un principio costitutivo. La persona è un principio innanzitutto relazionale, che nasce dalla partecipazione all’essere. Di conseguenza risulta forzata l’operazione di “dissociamento” delle diverse nature, quella sociale da quella individuale. Se vale le premessa, e tale è la natura dell’uomo, “togliere” l’aspetto sociale significa snaturarlo: infatti i principi, i moventi, i fini, i mezzi, tutto nell’uomo non può prescindere —data la premessa— dalla socialità. Da qui —a mio avviso— sorge contraddizione nel cercare la natura dell’oggetto che si studia compiendo in primo luogo un’operazione che lo snatura.
Analogo ragionamento può essere applicato alle premesse Hobbesiane, che da una parte vede nell’uomo un meccanismo, una macchina, un oggetto interamente determinato che financo nel suo ragionare non fa che porre un “calcolo sui nomi”; dall’altra un essere capace di volontà, di pulsioni che muovono qualsiasi suo atto, al pari di qualsiasi animale. La questione che qui si pone non è quella della libertà dell’atto volontario, ma del fatto che queste due visioni rispondono a principi completamente diversi e di difficile concilazione: da una parte una causa efficiente, che spinge per necessità ogni movimento, in una catena di conseguenze determinate da cause precedenti. Dall’altra invece il movimento trae origine da una causa finale, da un evento futuro verso il quale l’essere vivente tende, in previsione che questo si verifichi o viceversa possa essere evitato. Conciliare queste due premesse non è cosa facile: come si possono raccordare questi due punti di vista, a che livello e su che scala le due premesse possono coesistere?
O l’animale uomo è una macchina, priva di pulsioni e volontà, che viene mossa; oppure è capace di volere, di pulsioni e passioni.
Possiamo tntare una risposta allontanandoci da Hobbes, e considerando il problema in termini contemporanei. Pur ammettendo che possano esservi (anzi, personalmente direi che assai verosimilmente vi sono) “meccanismi” deterministici necessari e sufficienti alla base di qualsiasi processo, fisico, chimico o biochimico sui quali si fonda la vita, ciò non toglie che ciò che muove il vivente si arricchisce di un elemento assente nella materia inanimata, che viene sommariamente chiamato “fine”. Un legame necessario e sufficiente (che spiega cioè esaurientemente tutto il moto, senza dover ricorrere ad altro) tra causa efficiente (principi biochimici del moto) e causa finale (la volontà, pulsione o passione) è riscontrabile solo in organismi assai semplici, per i quali è possibile ricondurre le “passioni” che li attirano a ben determinati condizioni e processi biochimici. Ad esempio il gradiente di concentrazione di sostanze nutrienti nell’ambiente “attira” l’organismo unicellulare operando sulle sue ciglia vibratili nel fenomeno chiamato chemiotassi, analogamente al movimento della pianta verso la luce (fototropismo). In questi semplici casi, il movente (la ricerca di cibo come fine) può rappresentare una descrizione sintetica di una cascata di eventi causali che, a parità di condizioni, hanno sempre lo stesso esito, di “muovere verso un fine”. In aggiunta, nella descrizione sintetica viene ricompresa anche una seconda cascata di eventi: la filogenesi dell’organismo stesso, cioè il perché quel determinato organismo si muova vero il suo “fine”, ovvero il lunghissimo processo di selezione ed adattamento naturale che ha prodotto organismi che si muovono verso il cibo o la luce invece di allontanarsene. Riassumendo, il ricorso alla descrizione sintetica che va sotto il nome “fine” ricomprende (ed consente di evitare) due descrizioni analitiche: una sincronica, che si riferisce al collegamento tra causa efficiente e causa finale, una diacronica, che rende conto della filogenesi. In termini aristotelici quest’ultima potrebbe essere ricondotta alla causa formale, ovvero al “perché la cosa è com‘è”. All’aumentare della complessità degli organismi il collegamento tra descrizioni sintetiche e analitiche ai allarga, e diviene sempre meno evidente. Si deve far ricorso a termini quali “volontà” e “ libertà” per giustificare un movimento che per la sua complessità viene ormai chiamato comportamento e si riferisce a scelte.
Come nel caso della scelta di Rosmini, ma anche la narrazione di Rousseau di un uomo in “stato di natura”; nel tentare separare un uomo sociale da un uomo dissociato, non è più di tanto possibile prescindere (come se fosse possibile applicare il principio ceteris paribus) dalla interconnessione non solo della società umana, ma degli esseri viventi tra di loro.
Ritengo sia più efficace vedere al punto che è più facile vederli come elementi di un sistema vivente che come esseri viventi individuali.
Forse sarà possibile affrontare, anche in questi termini, il problema che ha spinto gli autori sopra citati di giustificare un diritto individuale contrapposto ad uno sociale, di cui l’esempio più emblematico è quello della giustificazione al diritto alla proprietà di beni privata cioè tolta ad altri individui.
Se la premessa per giustificare un diritto naturale è quella di preventivamente snaturare l’uomo, il contenuto di un diritto naturale potrà essere qualunque: basterà operare questa rescissione dell’uomo dal resto della natura in modo opportuno, escludendo o includendo ciò che si vuole più o meno naturale. Se invece si considererà il vivente come soggetto di cui l’uomo è parte, sarà possibile coglierne una maggior ricchezza di aspetti.
L’ampiezza della capacità di azione dell’uomo sul suo ambiente, dal DNA al clima, alla possibilità di programmare soggetti artificiali sempre più autonomi, non può lasciare solo l’uomo come unico oggetto del “diritto naturale”.
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