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Il segno nullo · 2008-05-23 by mmzz

Sono incappato nel “segno nullo”. Parlo del segno il cui significante esiste,
ma il cui significato e’ “l’assenza di significato” (o “”). Si tratta in
definitiva di una rappresentazione del nostro tentativo di “catturare” il
concetto di nulla. Concetto che a dispetto della sua assenza riusciamo a
maneggiare benissimo, non tanto perche’ si possa effettivamente maneggiare
il nulla (cosa su cui non voglio affermare alcunche’), ma per altri due
motivi: (1) che’ e’ sempre un “nulla” relativo: una assenza di qualcosa,
piu’ che una presenza di nulla o assenza di tutto, e (2) perche’ possiamo
benissimo percepire l’assenza di qualcosa che c’e’, a condizione che
questa “dica” di non esserci.
Alcuni esempi: lo spazio tra le parole e’ (1) e’ relativo, cioe’ e’ una assenza di inchiostro ma non un buco nel foglio, inoltre mette in relazione le parole che lo circondano e (2) dice: “qui non c’e’ nessun segno”, quando beninteso cio’ non e’ vero, in quanto lo spazio stesso e’ un segno. Altro esempio e’ la scritta “this page is intentionally left blank” che si trova ni manuali informatici a fogli mobili o in certi documenti legali. In questo caso il senso del messaggio è chiaro, anche se risulta del tutto insoddisfacente il modo in cui questa convinzione viene raggiunta: infatti cio’ che il messaggio esprime chiaramente lo fa a dispetto di una menzogna: il foglio non e’ piu’ blank dal momento in cui vi viene scritto qualcosa. Si potrebbero fare considerazioni analoghe sullo zero e altri segni convenzionali con funzione simile.

G. mi scrive che nei codici antichi la scrittura era continua, cioè non si staccavano le parole. Questo rendeva necessario leggere ad alta voce. L’assenza del segno “vuoto” rende evidente il legame profondo della scrittura con la parola parlata: e’ il
feedback acustico, attraverso l’ascolto, a introdurre la separazione tra parole nel flusso scritto .

Update: Roland Barthes parla del segno nullo in Le neutre.

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Autorita', ragioni ed identita' · 2008-05-15 by mmzz

mi accorgo che il tema dell’identita’ e’ assolutamente centrale in tutto cio’ che incontro. Nel campo del diritto mi pare che Raz abbia visto piu’ giusto di altri: non sono me stesso
se non decido (almeno un po’) in autonomia. Ma continuo ad essere io
se condivido le ragioni e faccio mio il punto di vista dell’autorita’
(e qui viene fuori Hart). Perche’ questo succeda le ragioni devono
continuare ad essere accessibili, comprensibili, spiegabili,
condivise, legittime. Questo a mio avviso dovrebbe essere un
imperativo di metodologia politica e giuridica.
Accessibili: alla portata di chi vi si deve conformare, realizzabili, attuabili. Comprensibili, nel loro significato e nel loro ruolo nel sistema delle ragioni che compongono una cultura. Spiegabili, cioe’ legate da vincoli il piu’ possibile razionali al sistema delle ragioni
in cui sono collocate (coerenti potrebbe essere un sinonimo). condiviste significa vere, cioe’ potenzialmente effettive, basate su un sistema di valori potenzialmente comune alla base sociale. Il termine legittime riassume la condivisione e la coerenza.

Se mancano le ragioni dietro ad una norma o una legge, bisogna trovare dei surrogati: persuasione (ideologia come simulacro di ragione), coercizione (irrilevanza delle ragioni difronte alla violenza), conformismo (la ragione “exclusionary” e’ fare come gli altri).
Sia persuasione che conformismo e coercizione annullano o limitano l’identita’.

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Altra ipotesi sulla privacy · 2008-05-15 by mmzz

Si parla di privacy e invisibilità. A fronte di una tecnologia invisibile che rende visibile l’invisibile occorre che l’individuo posa dotarsi di una invisibilità per rispondervi.Non riesco a farmi trascinare dalla cosa. Nemmeno mi convince troppo la vergogna, per cui non mi vergogno davanti al mio gatto ma davanti al vicino o alo sconosciuto.
Il vero problema dell’intrusività delle tecnologie è che ci rende prevedibili. E in quanto tale erodono la libertà. Se sono determinato ma imprevedibile è come se fossi comandato. Se sono deteminato ma nessuno —in pratica— può sapere cosa farò è come se fossi libero. E probabilmente è esattamente ciò che accade: perciò siamo liberi ance se determinati: la complessità del modello richiesto per la nostra previsione è tale da sovrapporsi con l’imprevedibilità del mondo. Ma chiunque vede ciò che faccio istante per istante è come se sapesse in anticipo cosa sto facendo.O anche se conosce gli atti che voglio sottrarre alla prevedibilità altrui (nessuno può immaginare ciò che faccio) è come se li conoscesse prima che li compia. E’ l’atto privato che voglio sottrarre alla previsione della sfera pubblica, ciò che voglio evitare è di essere reso provisto e prevedibile. oggetto di determinazione.

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Privacy ed aumento della pressione di identificazione · 2008-05-12 by mmzz

Ho già scritto degli indicatori sintetici di identità. che consentono di distinguere un individuo da un altro e di attribuire a tizio o caio atti, fatti, gesta, proprietà, etc. Le esigenze di sicurezza, o per essere più corretti, la crescente diffidenza nei confronti del prossimo spingono a richiedere che questi indicatori sintetici vengano sempre più frequentemente esibiti nel processo di identificazione. Il secondo passo del processo, quello di autenticazione, prevede che gli indicatori sintetici vengano confrontati con il soggetto che li esibisce. Se c‘è corrispondenza, le facoltà legate all’identità vengono concesse, altrimenti negate.

Il fatto che vengano esibiti frequentemente comporta che siano nella disponibilità di un crescente numero di sistemi e/o persone e che possano essere riprodotti e/o conservati anche fuori dalla disponibilità del legittimo detentore. La mia tesi è che questo comporta in ultima istanza la loro svalutazione, cioè la loro sempre minor capacità di autenticare chi le esibisce/detiene.

Come mai i sistemi di identificazione, sotto la pretesa dei essere più sicuri sono sempre più intrusivi? I sistemi di identificazione/autenticazione vengono tradizionalmente classificati in:

Per guadagnare di efficacia questi sistemi vanno combinati: la carta d’identità o il tesserino aziendale portano una fotografia, e sempre più frequentemente altri indici.

Ma man mano che vengono usati le informazioni usate vengono diffuse. La fotocopia della mia carta d’identità (per motivi di sicurezza) è in mano a decine di persone non necessariamente fidate, inclusi i negozi di telefonia mobile. Il mio codice fiscale può essere generato a partire da dati (sempre più) pubblici, si trova in dozzine di archivi e ormai compare sugli scontrini delle farmacie. Il numero di targa è esposto e continuamente e viene registrato (sempre per motivi di sicurezza).
Se all’inizio era sufficiente dichiarare il proprio nome, poi è stato necessario farsi fotografare e combinare nome e faccia (ciò che si sa con ciò che si ha), Ora nemmeno questo è più sufficiente e si arriva alla richiesta di DNA. Prima bastava ciò che si sapeva, poi sempre più serviva detenere delle credenziali, ora sempre più si devono confidare dettagli di come si è a sistemi automatici che memorizzano questi dettagli in database.

Il processo che sta dietro a questa escalation è proprio la sempre crescente diffidenza, la maggiore domanda di sicurezza che svaluta le credenziali già disponibili e ne richiede di sempre più intrusive.

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Demo democracy · 2008-05-05 by mmzz

«It bears reminding that “democracy” , a word used frequently in the modern media, does not at all mean the same today as it did in the 19th and the early 20th centuries. This is a case of two homonyms: the old “ democracy” came from the Greek word “demos” , which means the people, whereas the new “democracy” is derived from the word “demo” , as in “demo version” ».
Viktor Pelevin Generation P

«Occorre ricordare che il termine “democrazia” spesso citato dai moderni media, non ha affatto lo stesso significato che nel IX e all’inizio del XX secolo. Si tratta di un caso di omonimia: la vecchia parola “democrazia” derivava dalla radice greca “demos” , che vuol dire la gente, mentre la nuova dall’espressione ”demoversion” ».
Viktor Pelevin Babylon

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Altro che Privacy · 2008-05-05 by mmzz

Dal’autobiografia di Stefan Zweig “Mondo di ieri, ricordi di un europeo”. Modadori, 1954

Ma allora, nel 1934, una perquisizione domiciliare costituiva ancora in Austria un inaudito affronto. p.402

In realtà nulla forse rende più evidente la decadenza del mondo dalla prima guerra mondiale in poi, come la limitazione della libertà di movimento e la menomazione dei diritti naturali dell’uomo. Prima del 1914 la terra apparteneva a tutti: ognuno andava dove voleva e vi rimaneva finché voleva. Non c’erano permessi né concessioni né lasciapassare. […] Si ignoravano i visti, i permits e tutte le seccature; gli stessi confini che oggi, per la patologica diffidenza di tutti contro tutti, sono trasformati in reticolati e a base di doganieri, poliziotti e gendarmi non significavano altro che linee simboliche, ce si potevano passare con la spensieratezza del meridiano di Greenwich. Solo dopo la guerra ebbe inizio il perturbamento del mondo casato dal nazionalismo e come primo fenomeno visibile provocò la malattia intellettuale ed epidemica del nostro secolo: la xenofobia, o almeno, se non sempre l’odio dello straniero, la paura di lui. Dovunque ci si difese dagli stranieri, dovunque si cercò di eliminarli. Tutte le umiliazioni escogitate un tempo soltanto per i delinquenti, vennero ora imposte prima e dopo un viaggio ad ogni viaggiatore. Bisognava farsi fotografare da destra e da sinistra, di profilo e di faccia, coi capelli corti abbastanza da lasciar libero l’orecchio; bisognava dare le impronte digitali, prima del solo pollice, poi delle dieci dita, bisognava inoltre presentare certificati medici e di vaccinazione, certificati penali e di buona condotta, avere raccomandazioni, documentare gli inviti ricevuti ed offrire indirizzi di parenti, bisognava addurre garanzie morali e finanziarie e soprattutto riempire e sottoscrivere formulari in triplice o quadruplice copia, giacché se una sola di quelle carte mancava, si era perduti. Se calcolo tutti i formulari riempiti in questi anni, le dichiarazioni ad ogni viaggio, le denunce di tasse, i controlli di valuta, i passaggi di confine, i permessi di soggiorno e di partenza, le denunce all’entrate e all’uscita, se calcolo quante ore ho aspettato nelle anticamere di consolati e di uffici, di fronte a quanti impiegati ho dovuto sedermi, cortesi o scortesi, annoiai o innervositi, quante visite o interrogatori di confine ho subito, allora solo mi rendo conto qi quanta dignità umana sia andata perduta in questo secolo, che noi in giovinezza avevamo sognato secolo di libertà, èra del cosmopolitismo, quanto è stato rubato alla nostra produzione, alla nostra creazione ed al nostro pensiero da queste sterili meschinità avvilenti per l’anima. […] Pur nati con un’anima libera, eravamo costretti eravamo costretti a sentire di continuo di essere oggetto e non soggetto, di non avere diritto alcuno, ma di poter solo ricevere grazie dalle autorità. p.424 sgg

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Verso una nuova definizione di Stato? · 2008-05-05 by mmzz

Stato, s.m.: ente di regolazione territoriale del mercato. Es. Lo Stato Italiano regola il mercato sul territorio italiano.

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oltre struttura, sistema e funzione: closure, forma e senso · 2008-04-25 by mmzz

la forma è l’esito di una operazione precisa, quella di closure, chiusura funzionale e/o delimitazione fisica. Definizione di ciò che acquista la forma. Una data forma dipende dall’equilibrio delle forze interne che spingono la closure verso l’esterno con quelle esterne, contrarie: ciò che altrove ho chiamato identità ed identificazione . Inoltre derivano dalla necessità di dare protezione e delimitazione di un ambito vitale (Barthes – comment vivre enseble), definire un dentro e un fuori, un privato e un pubblico, un mio e un non mio, un io e un non-io. Evita la dispersione nell’ambiente con la formazione di una interfaccia più o meno definita. La forma discende dalla struttura, dall’assetto che il sistema ha trovato (o gli è stato imposto) per svolgere le funzioni necessarie (il corretto funzionamento), ovvero la sua organizzazione. Ne deriva che la forma ha una funzione, e che deriva dalla struttura, organizzazione e funzioni interne.

A me pare che il senso nasca dal valore attribuito a ciò che la forma delimita. E’ il valore che raccoglie e sopravanza la somma dei valori delle singole parti. O comunque va messo in relazione con un valore. Quello di attribuzione di senso, o di percezione del senso, è un processo valutativo. Ciò intendo per valore: una misura di desiderabilità in vista di un fine,
In tale prospettiva non è ragionevole (non ha senso) cercare di valutare il senso di un dato oggetto complesso o processo osservato,se non mettendolo in relazione con uno scopo, un valore, perfino una morale. Ma anche non va trascurato, nel considerare il valore, ciò che è alla base della forma, cioè il codice, l’ambiente, i processi identitari e di identificazione, la struttura, eccetera. Sono questi i criteri che danno alla forma un senso. Ecco perché se perdiamo quelli, si perde anche questo. Se si perde il senso, cioè il valore legato alle strutture e non solo alle forme, le strutture diventano immorali (cioè contraddicono i valori stessi che danno il senso), come nel caso degli integralismi: mentre la causa e il fine di molte religioni e dottrine è dare senso alla tolleranza, perso il senso resta la struttura, il dogma, l’ortodossia, l’ortoprassi, l’ideologia, privi del loro valore.
Da ciò dovremmo forse trarre grande diffidenza per l strutture, le forme, nel momento in cui non è chiaro il senso di cui sono intrise. E forse diffidare altresì del senso senza struttura, valori in caccia di una concretizzazione.

struttura, sistema, funzione, · 2008-04-23 by mmzz

Incontro spesso il termine struttura ove avrei scritto sistema. La parola struttura per me è centrata sul campo semantico di architettura, framework, telaio, impalcatura. Delinea in modo statico i principi, i lineamenti, le caratteristiche secondo cui un tutto è organizzato in parti attorno ad una ossatura. Strutturare significa porre le parti a delle distanze tra loro, secondo un ordine, una gerarchia, in vista di una costruzione complessiva. Vi è un tutto e una sua organizzazione. Destrutturare è operazione diversa dall’analisi che scompone la struttura, è una azione di disarticolazione che ha come obiettivo non l’analisi, ma la riorganizzazione in modo diverso. Il procedimento riduzionistico intende affrontare la complessità cercando di identificare le strutture alla scala “giusta” rispetto al fenomeno che si intende analizzare.

Sistema, all’opposto, prevede la considerazione della dinamica sincronica di un tutto composito: vi sono delle parti in relazione tra loro secondo una possibile struttura, e un tutto, il sistema. Sistema descrive anche una metodologia di analisi, centrata sullo scambio degli elementi tra loro, sulle loro azioni più che sulla loro composizione interna. Input, output, interfacce, ambiente, eventuali retroazioni. Rendere sistematico (sistematicizzare) significa ripetere nel tempo la stessa struttura di rapporti tra le parti, oppure organizzare queste tra loro e rendere espliciti i rapporti.
Gli elementi del sistema sono spesso sistemi a loro volta, riproponendo in scala ridotta al loro interno la struttura di cui fanno parte. L’analisi del sistema raramente considera la sua genesi, maturazione e eventuale fine: non spiega il mutamento dei rapporti nel tempo (dinamica diacronica). I rapporti tra le parti vengono descritti in termini il più possibile esatti, deterministici (o al limite probabilistici): la catena di causalità viene esplicata e distesa. Le uniche cause in gioco sono quelle efficienti, che spingono la catena degli eventi secondo il flusso degli input, degli output, delle retroazioni.

La parola funzione rappresenta il ruolo esercitato da ciascun elemento del sistema nell’economia generale degli scambi reciproci. Quali sono i compiti, la rilevanza, la dipendenza, di una parte in rapporto alle altre? Di servizio, di coordinamento, di inibizione, di promozione, di sostegno, di sincronizzazione, di protezione, ecc. L’attribuzione di funzione è un tentativo di spiegazione del rapporto tra le parti. Vuole dare ragione della struttura e dei rapporti: è esplicativo nei confronti dell’articolazione del sistema. E’ esplicativo in modo diverso rispetto alla catena causale evidenziata dalla descrizione del sistema. Infatti un modello funzionale non si limita a prendere atto dei rapporti che vi sono tra le parti, ma vuole coglierne le ragioni: dietro ad una funzione vi è uno scopo, un telos, un fine. In questo la causa è necessariamente la causa finale, cioè quella verso cui muove l’elemento del sistema o il sistema stesso, che lo attira, diversa dalla causa efficiente, che lo spinge per necessità.

La distinzione tra i termini struttura, sistema e funzione è opportuna, in quanto se vengono usati indistintamente possono portare a confusione. Se parlo di struttura mi riferirò alla descrizione statica di una articolazione, se di sistema, prenderò in considerazione i rapporti e i nessi causali, se di funzione amplierò lo sguardo anche sul fine.
La legge di gravitazione universale può essere espressa dalla sua formula, e i sistemi materiali vi si conformano, ad esempio quelli planetari; ma difficilmente si potrà parlare di funzione della Terra nel sistema planetario Sol. La descrizione si esaurisce nella struttura. Non altrettanto accade con sistemi più complessi.
Le “leggi” economiche o sociali potranno descriverne in modo parziale la struttura, e aiutarci a costruire dei modelli con caratteristiche di sistema, in cui vengono evidenziati degli elementi e i rapporti tra loro, in cui però sarà più facile identificare delle funzioni, degli scopi specifici, piuttosto che dei nessi strutturali causali e deterministici.
In un sistema biologico è forse più facile identificare delle parti e i nessi causali che soggiacciono alle loro relazioni, ed è forse perfino possibile ipotizzare delle funzioni, ma l’identificazione delle strutture complessive è resa difficile dalla enorme complessità delle relazioni.
Un sistema informatico (ad esempio un calcolatore elettronico, o una rete di calcolatori) si trova a metà strada. Può essere descritto in modo completo e generalmente esaustivo a livello strutturale: la composizione del sistema è determinata dall’esterno ed è generalmente stabile, inoltre il comportamento dei vari elementi è completamente determinato dalla programmazione (che prescrive e prescrive). Tuttavia per comprendere il funzionamento del sistema è necessario che vangano descritte le relazioni tra i vari elementi, le azioni reciproche, il flusso di dati tra elementi diversi, le interfacce e le possibili retroazioni.
Si può parlare di funzione dei vari elementi nella prospettiva del funzionamento (e nell’analisi del mal-funzionamento) complessivo del sistema, data una predeterminata suddivisione del lavoro tra elementi. Il telos, il fine, è il permanere delle funzionalità predeterminate del sistema al variare delle condizioni ambientali (resilienza) o perlomeno la salvaguardia dei dati.

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Creatività, scienza e codice · 2008-04-19 by mmzz

Per Kuhn (the structure of scientific revolutions, 1962 1 ) la teoria scientifica creativa ed innovativa emerge (e viene accettata diffusamente) solo quando è in grado di spiegare alcuni (pochi) problemi percepiti come gravi (recognized as acute p.23) che la vecchia teoria non spiega. Il nuovo paradigma potrebbe comunque non spiegare altre questioni. Il paradigm shift non avviene in modo indolore, ma attraverso competizione, conflitti, tensioni e scissioni, con alcuni scienziati che rimangono fedeli al vecchio paradigma o a teorie concorrenti. Una volta consolidata la rivoluzione, i manuali scientifici la nasconderanno (p.137) e presenteranno lo spostamento di paradigma mimetizzato da evoluzione progressiva costellata da eventi creativi illuminanti, contribuendo alla costruzione della mitologia del progresso scientifico.
Eccezion fatta per questi rari momenti di frattura creativa, la scienza si sviluppa attraverso la normal science , una attività definita di puzzle solving che si svolge secondo regole molto precise, più propriamente associabile al concetto di progresso e al termine “scienza”.
L’evento di riorientamento del paradigma viene descritto (p.85) come “picking the other end of the stick”, processo che porta a gestire gli stessi dati mettendoli tra loro in relazioni differenti.
La lingua, il dualismo significante/significato può avere un ruolo cruciale: al centro delle rivoluzioni, della creatività, vi è lo scardinamento una intera galassia semantica associata ad un significato e l’attribuzione di una nuova significazione. Kuhn porta l’esempio di ciò che accadde alla palrola “Terra” con la rivoluzione copernicana:
Consider the men who called Corpernicus mad because he proclaimed that the earth moved. They were not either just wrong or quite wrong. Part of what they meant by “earth” was fixed position. Their earth, at least coud not be moved. Correspondingly, Copernicus’ innovation was not simply to move the earth. Rather […] it was a whole new way of regarding the problems of physics and astronomy, one that necessarily changed the meaning of both ‘earhth’ and ‘motion’. Without those changes the concept of a moving earth was mad (p.149)
Analogamente, al termine “spazio” si sovrappone l’attributo “curvo” solo con la rivoluzione relativista Einsteiniana, operazione prima impossibile nello “spazio euclideo”. In questo Kuhn raggiunge Koestler 2, con la sua teoria della bisociazione, cioè associazione tra termini in conflitto.
La mia riflessione segue il filo di pensiero del codice…

Traggo conferma che la lingua non si limita per nulla a rappresentare ma prescrive, ordina e regola. E’ cioè una descrizione+prescrizione e un ordinamento+regola (répartition et commination – Barthes). Questa proprietà è ciò che consente a chi usa la lingua di comunicare, cioè prendere parte alla vita sociale. Ma non solo: la lingua consente di agire internamente il mondo “esterno” che essa rappresenta (umwelt – Uexkull). In sostanza consente di funzionare. La doppia capacità di rappresentare e fornire le informazioni per il funzionamento è ciò che io chiamo in senso più ampio codice. La “verità” di un enunciato consente un funzionamento migliore, una maggiore prevedibilità, uno “falso” l’opposto (perciò più un enunciato è condiviso, più è “vero”). Il codice della scienza rende il mondo prevedibile, consente a soddisfare le attese nei confronti dell’ambiente. Per questo motivo la scienza è molto conservatrice e non abbandona mai un paradigma se non ne ha pronto uno che spieghi meglio cioè in modo più soddisfacente, in modo da poter enunciare solo enunciati “veri”. Analoga funzione svolgono le leggi e le norme sociali che rendono prevedibile il comportamento dell’individuo nella collettività. In ciò descrivono e prescrivono, e la loro “verità” può essere messa in relazione con la loro effettività. La lingua, alla base della comunicazione verbale, la rende prevedibile, essendo ugualmente descrittiva e prescrittiva.

Questo comporta (almeno) tre problemi: chi stabilisce le regole (il problema dell’autorità ) e cosa succede se qualcuno le viola, e come rendere possibile il loro necessario cambiamento. I due ultimi problemi sono in relazione. Sia la violazione della regola che l’alterazione del codice, sono entrambe operazione “creativa”. La violazione della regola equivale alla proposta di un codice radicalmente diverso, rivoluzionario, mentre l’evoluzione progressiva del codice è problema diverso. L’aspetto creativo emerge in modo più evidente nel primo caso, ma con quali conseguenze? Ispirandomi a Koestler: (1) porta a ribellione e rifiuto: un pazzo o un criminale possono voler asserire, trasmettere un codice che porterebbe ad una alterata o sovvertita possibilità di agire il mondo e sconvolgere la corrispondenza tra ordine interiore e il mondo, imponendo un diverso modo di funzionare.
(2) procura il riso, che segue il rilascio della tensione emotiva seguente alla scoperta che la falsità asserita era intesa effettivamente come tale, e non come verità, e che nessuno pretende che seguiamo un codice errato, ma solo che comprendiamo quanto assurdo e paradossale sarebbe farlo. Lo scarto tra la nostra percezione del come funziona il mondo e la proposta è totalmente irrealistica. Non ci sogniamo di seguirla.
(3) Suscita l’ammirazione che segue l’apertura di un nuovo mondo interiore, una impressione appena formatasi, una nuova prospettiva di senso per un segno precedentemente inteso in modo diverso, una comprensione. Una nuova rappresentazione che offre nuove, inattese possibilità di un funzionamento migliore, di una maggiore prevedibilità, Un nuovo paradigma.

La seconda riflessione è che la creatività si accompagna sia con la cooperazione che con il conflitto.Cooperazione perché l’innovazione non può avvenire che nell’ambito di un paradigma consolidato, di un codice funzionante e attuale, seguito e condiviso da molti. Conflittuale perché con questo si pone in opposizione dialettica.

Questo mi ricorda Karcevskij 3, che studia la trasposizione del valore semantico del segno: i valori formali catturano quelli semantici, ma ogni significato entra in una rete sinonimica, un raggruppamento organizzato di rappresentazioni. La trasposizione consente (o vieta) di spostare questa attribuzione di un valore formale a un ambito semantico. La mia visione di questo fenomeno, con metafora Shroedingeriana, è quella di un segno opaco, indefinibile, il cui significato vibra all’interno di una nuvola di campi semantici molto ampia, con alcune zone particolarmente frequentate e altre decisamente proibite, sovrapponendosi ad altri segni, secondo serie omonimiche, omofoniche e sinonimiche. L’enunciazione, l’atto di produzione della parole in un collocata in un enunciato, in un discorso, situato in un contesto, da una data persona, in un dato tempo e periodo storico, fa collassare il segno in stati di significato sempre meno ampi, sempre meno opachi, più circoscritti e definiti. La collocazione in una rete di significati che ne escludono altri permette al segno di acquistare un senso sempre più preciso.
L’atto creativo libera il segno da alcuni di questi vincoli, e libera energia. La trasposizione di un significante verso un diverso significato consente all’atto creativo di portare a un senso, cioè di comprenderlo, riconducendolo a una nuova significazione.

Note:
1 – Le citazioni da Thomas Kuhn si riferiscono alla terza edizione inglese (1996, U.of Chicago)
2 – Dal seminario del prof.Prampolini su creatività, variazione, ripetizione . Padova 18-4-08
3 – Dal seminario su Karcevskij della dott.ssa Malika Pila, Padova, 13-03-08

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