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Il segno è una caccia · 2008-04-16 by mmzz

Come nella caccia mitica tra il cane Lelapo e la volpe Teumessa, il segno è una sola azione che richiede due attori. Un cacciatore, un cacciato, e la caccia.
Per rendere onore alla ricchezza del segno e del significare, serve anche che questa caccia non abbia mai fine; e perché possa proseguire in eterno,
Ma perché possa servire, occorre che la caccia si concluda, e che il significante possa acchiappare in modo stabile un significato. Perciò Zeus deve pietrificare i il cacciatore e la preda in un solo momento che li unisca. L’unione tra significante e significato avviene grazie all’atto divino di attribuire un valore convenzionale al segno, di permettergli di significare, e al quel segno, di avere quel significato.
Perché è necessario il gesto di Zeus a pietrificare la caccia? Perché se non viene interrotta, quella caccia, la caccia di senso, non può avere mai fine.Ma se il cacciatore uccide la preda, la caccia non può più proseguire, Perciò occorre che la caccia simultaneamente continui, e si interrompa. Che i segno significhi, ma non in modo completo e definitivo: il segno può ottenere più significati, e il gioco di rimando delle denotazioni è potenzialmente infinito. Come nella caccia tra Lelapo, cacciatore che non può mancare la preda, e Teumessa, volpe che non più essere cacciata, è necessario operare una chiusura, una closure, cioè attribuire in modo definitivo, sebbene insoddisfacente, un significante a un significato, una espressione ad un contenuto; occorre fare ciò sapendo che la caccia non è conclusa, accettare la possibilità che il segno menta o non esprima tutto il potenziale comunicativo, che sia un codice che cela oltre che svelare.
Ma sappiamo —anche se nessuna leggenda lo narra—, che appena Zeus distoglie lo sguardo, che la pietra si scioglie e Lelapo e Teumessa riprendono la caccia: il segno si apre nuovamente e il significante riprende il suo inseguimento al significato.

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il bel danubio blu · 2008-04-05 by mmzz


Ho ascoltato alla radio il valzer di Johan Strauss “il bel Danubio Blu” nell’interpretazione di Karajan, per me indissolubilmente legato a “2001 Odissea nello spazio”. Visto al cinema quando avevo 10 anni circa, ha lasciato una impronta, un segno nella mia identità, quasi un feticcio. La navetta slanciata con la scritta “PanAm” sulla fiancata candida entra nella grandiosa stazione spaziale rotante, ancora in costruzione. Una matrimonio tra terra e cielo, tra scienza e progresso, tra futuro e presente. Una formidabile promessa di prosperità, progresso inarrestabile, solida attesa di un domani proiettato verso le stelle. Il valzer viennese, trionfale, sereno, maestoso, solenne accompagna ogni passo di una marcia che ci porta a magnifiche sorti e progressive; fine appena con la sua grazia di nascondere l’energia di una molla tesa, la volontà di più grandi balzi. Balzi che Kubrik ci offre, verso lo spazio e verso noi stessi.
Ma PanAm è fallita nel 1991, e il 2001 ha visto aerei civili usati come proiettili, e poi ancora altri proiettili lanciati contro civili. A molti popoli, da allora come prima, è stato portato via non il sogno nello spazio (come a me), ma ogni possibile futuro. La scienza e la tecnologia sono usate dall’uomo contro l’uomo e contro la natura, e lo spazio resta freddo e nero. Ammesso che ancora qualcuno lo guardi.

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Dal sistema alla semiosi. · 2008-04-05 by mmzz

In quale contesto si svolge la mia ricerca? Oltre alla curiosità, il mio lavoro di amministratore di sistemi informatici mi spinge a adottare uno sguardo sistemico, per cui, per così dire, vedo sistemi ovunque. Il mio lavoro consiste nel costruire sistemi informatici complessi ed manutenerli, affinché svolgano il compito previsto anche al variare delle condizioni dell’ambiente, delle funzioni attribuite, della loro dimensione e composizione. Devo essere capace di leggerne ed interpretarne i segni, che per via della complessità spesso non possono essere messi direttamente in relazione con la loro causa. L’osservazione porta quindi ad acuire la curiosità su come questa complessità nasca: dal programma al sistema di programmi che compongono un sistema informatico e da questo all’installazione complessiva composto da singoli sistemi. Il mio compito è quello di organizzare la complessità in modo da garantire che sia gestibile, che possa evolvere, che sia resiliente al mutamento dell’ambiente.
L’azione di chi progetta i sistemi informatici è mirata a costruire un contesto sempre più aperto, versatile ed affidabile in cui sistemi sempre più complessi possono operare.
Ho messo in evidenza quali siano i processi in gioco parlando di enabling Environments Si tratta di un lavoro in cui evidenzio, oltre all’importanza di un flusso di conoscenza aperto in tutti i livelli, anche il ruolo degli attori economici ed il loro interesse a collaborare. Dall’analisi emerge che gli strumenti principali sono la modularizzazione, ovvero il raggruppamento di funzioni omogenee in confini il più possibile autonomi, e la stratificazione, ovvero l’organizzazione di moduli secondo relazioni gerarchiche in modo da garantire l’isolamento delle funzioni, specie se queste riguardano livelli diversi di complessità. E’ una sorta di riduzionismo alla rovescia: invece di scomporre l’osservazione in elementi semplici, comprensibili e riproducibili, si tratta di costruire un organismo complesso in modo che le parti stiano tra loro in modo che eventuali disfunzioni siano identificabili ed isolabili facilmente (potremmo chiamarlo “costruzionismo sistemico”?). Non sempre è un lavoro semplice: si tratta di attribuire una identità a ciascun elemento, definendone i confini in modo tale che la maggior parte delle funzioni dei componenti di quell’elemento cadano all’interno dei suoi confini. Così non facendo, una variazione dell’ambiente circostante comporterebbe una alterazione del funzionamento dell’elemento, minandone l’autonomia e la resilienza, cioè la capacità di sopravvivenza ad un mutamento dell’ambiente. Tuttavia non è nemmeno possibile garantire la completa autonomia, in quanto la natura del sistema richiede l’interazione con altri sistemi e la dipendenza dall’ambiente. Si tratta quindi di trovare il confine ottimo entro il quale la maggior parte delle relazioni cadono, o almeno quelle che possono essere messe in rapporto con una determinata funzione. Il modulo è quell’elemento. I moduli si organizzano in base al loro grado di complessità in rapporto con altri gruppi di moduli in strati con funzioni omogenee, di complessità crescente: gli strati più bassi svolgono funzioni più elementari, e quelli che vi si appoggiano quelle più complesse.
Lo scopo ultimo dell’attività è quello di garantire la prevedibilità del sistema a partire dalla prevedibilità del comportamento degli strati e degli elementi all’interno degli strati, Infatti un sistema informatico muta nel tempo: cambiano i suoi componenti, che evolvono (migliorie, correzioni di errori) e cambia l’ambiente con cui il sistema si deve interfacciare, per via di nuove esigenze o per il suo estendersi. Un sistema ben organizzato richiede il minimo sforzo nella manutenzione di elementi già posizionati in una architettura generale, e consente al sistemista di concentrarsi sulla sua evoluzione. Ecco perché la modularità e la stratificazione sono parti essenziali dell’architettura di un sistema ben costruito. Un sistema in cui tutte le funzioni fossero mischiate in un blocco unico (monolitico) sarebbe difficile da realizzare, manutenere e massimamente imprevedibile alla minima variazione dell’ambiente o del comportamento di un suo componente, Lo stesso sistema, se invece organizzato in elementi dal comportamento prevedibile, può essere analizzato secondo il criterio ceteris paribus ed essere reso prevedibile nel suo complesso, anche al variare del comportamento di un singolo elemento.
In un sistema così costruito non può mutare il rapporto tra gli elementi, ovvero l’interfaccia tra i vari moduli e strati, che si traduce in un complesso di protocolli, relazioni, strutture dati, sincronismi e gerarchie che organizzano gli elementi in un sistema unico e ne definiscono l’architettura. L’interfaccia consente l’accoppiamento strutturale, funzionale e la sincronizzazione dei moduli tra loro. Una variazione nelle interfacce ha effetti molto più profondi sul sistema di quella che coinvolge il meccanismo interno dell’elemento che lo compone: perciò, una volta definita una interfaccia in modo completo e soddisfacente, gli elementi che si mettono in relazione tra loro attraverso quell’interfaccia possono addirittura essere sostituiti, purché continuino a conformarvisi (e cioè a rispettarne gli standard). Il costo di una eventuale riorganizzazione delle relazioni tra elementi del sistema è tale che spesso si preferisce riprogettare tutto da capo. Ciò evidenzia la presenza di path dependence nella evoluzione di un sistema: le scelte (specie quelle di architettura) sono persistenti nel tempo e condizionano le possibilità di scelte future, La forma di un sistema sarà quindi data dalla quantità, qualità, struttura, e storia delle interfacce che lo compongono più di quanto sia frutto della natura e struttura interna dei suoi elementi. Dal punto di vista “soggettivo” di un elemento inserito in un sistema, l’interfaccia è simultaneamente il mezzo con questo percepisce l’ambiente e il mezzo con cui fornisce all’ambiente una rappresentazione di sé. In modo astratto (e un poco ardito) si può definire l’interfaccia come l’insieme strutturato di “credenze” che un elemento inserito in un sistema ha di sé e dell’ambiente,

Quanto detto per un sistema informatico può applicarsi anche ai programmi informatici (di cui un sistema è composto). Il programmatore suddividerà il programma in unità facilmente gestibili, moduli o funzioni indipendenti, da mettere in relazione con il resto del programma attraverso interfacce e strutture dati ben definite e il più possibile persistenti, Posioni di programma potranno essere aggiornate, ma le strutture dati rimarranno quelle.

Ma non sono solo i sistemi informatici a essere strutturati così. Conosciamo bene il sistema informatico perché è la struttura cognitiva più complessa costruita, e la conosciamo appunto perché l’abbiamo costruita artificialmente: la sua costruzione è simultaneamente la sua riduzione. Ipotizzo però, con le debite distinzioni, che molti sistemi complessi condividano almeno alcune delle caratteristiche descritte poco sopra: mi riferisco ai sistemi viventi (organismi, ecosistemi), quelli sociali (economici, politici), e il linguaggio stesso (o più generalmente la semiosi). Non approfondirò il motivo di questa affinità: non pretendo di descrivere leggi naturali, ma solo di osservare. E’ probabile che i sistemi informatici siano costruiti come sono proprio perché a costruirli sono esseri viventi sociali che usano molto intensamente la comunicazione verbale e non.
Tornando all’analogia: i sistemi viventi si sono evoluti con il tempo e la selezione in modo da confinare in organismi (relativamente) autonomi molte funzioni, il complesso delle quali può essere considerato un sistema unico (la vita). I sistemi sociali umani hanno costruito istituzioni in cui confinare in modo prevedibile funzioni che riguardano la collettività e la regolazione delle interazioni sociali complesse: la famiglia, la comunità, la città, la giustizia, il potere, lo stato, il mercato. Ciascuna di queste istituzioni tiene un comportamento prevedibile in virtù di relazioni ben definite con gli altri elementi del sistema sociale, diano essi individui o altre istituzioni. La riorganizzazione radicale di queste relazioni è solitamente fatto ben più traumatico del riassetto interno delle istituzioni stesse, che possono evolvere in modo relativamente autonomo. Un esempio di come questa difficoltà sia sentita lo si trova nella difficoltà di riuscire a riorganizzare gli apparati politico-amministrativi di uno Stato in modo che questo possa seguire le nuove necessità che emergono da un ambiente mutato. Ho brevemente analizzato il caso delle istituzioni locali in Italia parlando di libertà di forma . La rigidità data dalla path dependence e da regole istituzionali non adatte a nuove funzioni svuota le istituzioni di significato, esponendole a crisi di identità all’interno del sistema.

Infatti ogni individuo e istituzione gode di una relativa autonomia purché rimanga nel quadro definito dalle interfacce predefinite e della loro storia (path dependence). A differenza di un sistema informatico, la prevedibilità degli elementi di un sistema sociale non è totale, Non essendo un sistema costruito secondo un piano prestabilito, non è possibile nemmeno agevolmente ridurlo. Le persone (e di conseguenza anche le istituzioni) agiscono “liberamente”, cioè in modo non completamente prevedibile, benchè la prevedibilità sia un requisito irrinunciabile perché il sistema economico, sociale, e anche affettivo continui a funzionare. La pressione che il sistema eserciterà sui suoi elementi sarà molto grande affinchè si comportino in modo prevedibile. La necessità di vivere in un ambiente prevedibile e di fornire un comportamento prevedibile al sistema in cui siamo inseriti è la principale forza che conforma gli elementi del sistema stesso. L’individuo (la famiglia, l’istituzione, lo stato) dovrà negoziare la propria autonomia con l’ambiente, dovrà trovare il confine tra autonomia e determinazione esterna, ovvero il suo ruolo e la sua identità (B.Swann). Il ruolo dell’autorità (e del potere) emerge a questo livello. L’autorità sorge (J.Raz) quando, per garantire il funzionamento del sistema nel suo complesso, i confini operativi, le interfacce tra gli elementi di un sistema sociale possono essere determinati da livello superiore: individuo e autorità sono al servizio del sistema stesso.
A differenza di un sistema informatico, che, essendo frutto di una costruzione, è completamente eterodiretto, in un sistema sociale la forma del sistema viene negoziata dagli elementi stessi. Per un sistema vivente si dice che questo evolve secondo leggi di selezione e adattamento: è comunque il comportamento a influenzare il successo di una forma rispetto ad un’altra. Sorge a questo punto il problema di difficile soluzione di quale sia il meccanismo con il quale i singoli elementi possano determinare l’adattamento del sistema e la sua forma. Questa domanda è centrale nella riflessione cibernetica (H. Von Foerster).
Uno degli elementi cruciali a mio avviso giace nel concetto di codice. Per comprenderlo facciamo un passo indietro, al sistema e alla sua architettura.

Il prezzo da pagare per la scomposizione in moduli è il sorgere di una barriera tra modulo e modulo, di una distanza che viene occupata dall’ambiente: cellule distinte, organi distinti, individui distinti, famiglie distinte, istituzioni, stati, ecc… I moduli devono comunicare tra loro secondo interfacce e attraverso messaggi che con l’aiuto di un codice possono riprodurre la “comprensione” tra modulo e modulo. I segni che gi elementi di un sistema si scambiano servono a riprodurre lo stato interno di un elemento in un elemento diverso, mettendoli in relazione come se fossero —funzionalmnte— lo stesso elemento.
Anche considerando la strutturazione gerarchica in strati di complessità crescente, tra strato e strato è necessaria una comunicazione formalizzata (messaggio + codice), in modo che sia possibile la strutturazione di organismi, istituzioni, sistemi di complessità superiore a partire da elementi.
Dato che all’interno di un sistema la suddivisione di elementi in grado di comunicare tra loro richiede la condivisione di un codice, ossia la sua vigenza simultanea (cioè l’uso effettivo). Il codice condiviso serve a identificare le parti funzionalmente omogenee di un sistema: posso, in altri termini, associare vari elementi di un sistema a una determinata funzione nel momento in cui tutti quegli elementi usano quel codice per comunicare tra loro. Ad esempio posso definire una nazione in base al codice vigente denominato “leggi”: in Italia vigono esclusivamente le leggi italiane, che non vigono altrove. Una istituzione è identificabile, più che in base alla sua sede, al rispetto dei codici che consentono la comunicazione tra i suoi membri (cfr la teoria istituzionalista del diritto — Santi Romano): leggi e regolamenti, gerghi, linguaggi specialistici dei gruppi sociali e professionali, il lessico famigliare, Ma anche norme sociali e leggi morali, abitudini alimentari, moneta, religione, cultura, credenze politiche, fino al “codice della vendetta barbaricina” di Pigliaru. Uno dei più importanti codici chiaramente è la condivisione della stessa lingua, ma tutti servono alla comunicazione ed allo scambio, Codici diversi possono o meno coesistere in modo più o meno conflittuale; anzi, potremmo definire il conflitto come la compresenza inconciliabile di codici diversi nello stesso territorio, popolazione, famiglia, persona, organismo: pensiamo alle minoranze etniche e linguistiche e al problema della società multietnica e pluralista. Le incompatibilità tra codici obbligano a scelte di appartenenza. Devo appartenere a una sola religione, ma posso parlare più lingue; posso condividere più culture e anche avere più di un passaporto, ma in un dato territorio vige una sola legge nazionale da rispettare. Come individuo (ma ciò vale per qualsiasi altra istituzione) sono perennemente costretto a negoziare la mia identità con l’ambiente sociale che richiede che agisca prevedibilmente in base ad un codice consistente. Cambiare codice, specie se per adottarne uno incompatibile col precedente (religione, nazionalità), è pericoloso e spesso socialmente a malapena tollerato, se non apertamente sanzionato. Politicamente, un cambiamento brusco di codice si chiama rivoluzione, e raramente è completo come vorrebbe apparire (si pensi all’apparato —e il codice— burocratico zarista sopravvissuto alla rivoluzione russa).
Quanto detto poco sopra sulla negoziazione dell’identità assume una maggiore chiarezza: l’individuo, pur determinato da un contesto sociale che lo preme ad adottare diversi codici che lo identifichino e rendano prevedibile, gode non solo di una libertà interpretativa del codice stesso,ma anche della facoltà di trasgredire a porzioni di codice non tanto ampie da rigettarlo, ma abbastanza ampie da determinarne, se la trasgressione si diffonde ad altri soggetti, la modificazione nel tempo. Si può così giustificare l’evoluzione, che raramente avviene per fratture, delle leggi, della lingua parlata e scritta, delle credenze politiche e religiose, dei gerghi, delle culture. Ed è per questo motivo che è molto pericoloso sostituire codici vivi, “eseguiti” da persone viventi, con vincoli tecnologici. Di questo aspetto, assieme al concetto di autorità di J.Raz mi sono occupato parlando di Sistemi programmati di vincoli che svuotano l’autonomia individuale e inibiscono una evoluzione critica del sistema.

Il sistema economico meriterebbe una analisi a sé: il meccanismo di regolazione dello scambio dei beni materiali basato quasi esclusivamente sul mercato i cui codici sono il prezzo, la scarsità, la qualità e la reputazione, è un codice tacitamente accettato in molte culture, ma non in tutte, e la predominanza del concetto di mercato è stato spesso contestato in quanto vengono ignorati altri meccanismi, quali quelli della solidarietà e del dono (F.Perroux, K.Polanyi).

Esistono sistemi sociali non umani, tra animali e perfino alcune piante, di cui si è scoperta la capacità di comunicare tra loro attraverso la simbiosi del loro apparato radicale con batteri. In How plants communicate using the underground information superhighway
gli autori ipotizzano come i meccanismi di comunicazione biochimica possano identificare forme di comportamento di tipo sociale, tese ad alterare l’ambiente (il suolo) in modo da favorire la propria “comunità”.
If even a small portion of the thousands of different chemicals produced by the roots of plants have effects on their neighbours, then speciesspecific interactions, natural selection, community integration, and community coevolution might proceed in different ways to those predicted by conceptual models based on resource competition.

Scendendo di livello, la condivisione di altri codici, tra cui il più importante è quello genetico, suddivide i viventi in gruppi che condividono porzioni più o meno ampie dello stesso genoma (il DNA, detto codice genetico). Da questo deriva se sono piante, animali, funghi, e che tipo di piante o animali: se pesci, rettili, mammiferi. Ed in maggior dettaglio, se primati e di razza umana, quale sarà il colore della pelle, il gruppo sanguigno e la suscettibilità a certe malattie. In base alla compatibilità genetica tra loro, gli individui potranno o meno accettare donazioni di sangue o organi, dato che il sistema immunitario determina cosa può essere ritenuto self cioè appartenente all’identità dell’organismo e cosa non può esserlo. La comunicazione tra cellule, tra sottosistemi interni ad un organismo vivente, avviene attraverso lo scambio di molecole. Il significato del codice sottostante si manifesta negli effetti biochimici. Il messaggio decodificato “correttamente” produce nel ricevente un effetto tale per cui il sistema “funziona”.
Anche per il sistema biochimico vale quanto detto per i sistemi sociali: a differenza del sistema informatico il codice non è eterodeterminato da una “intelligenza” che lo programma in partenza ma è il frutto di una evoluzione. A differenza del sistema sociale non si può attribuire l’evoluzione del sistema alla libertà di interpretazione del soggetto che “esegue” il codice, tuttavia si può ritrovare un certo grado di imprevedibilità attraverso la possibilità di mutazioni nel codice. Qui mi fermo, non avendo le competenze per approfondire i meccanismi di mutazione e la loro ripercussione sul codice e neppure essendo questo il mio scopo.
Non mi resta però che condividere l’opinione di Sebeok, per cui la semiosi è il fenomeno che distingue forme di vita da oggetti inanimati

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causa efficiente, causa finale, volontà e analisi scientifica · 2008-03-16 by mmzz


E’ difficile parlare di causa, se la si mette alla fine del processo di cui la si ritiene, appunto, causa. Come è possibile che qualcosa possa essere causa di un processo senza esserne origine, motivo, ragione? Aristotele chiama causa efficiente ciò che dà origine e inizio a qualcosa, distinguendola dalle altre tre cause: materiale (ciò di cui la cosa è fatta), formale (la sua forma), finale (ciò a cui tende). La causa efficiente della caduta di un grave è nota: la forza di gravità. Pare eccessivo —da quando conosciamo i meccanismi della gravità— voler a tutti i costi dotare il grave di una volontà propria, quella di ricongiungersi alla massa terrestre: per farlo occorrerebbe ricorrere ad una volontà preordinatrice che fissa le leggi della natura in modo tale da determinare le cause efficienti (ora note) in vista di una causa finale (che resta ignota).

La causa finale, in modo più o meno aperto e specie parlando del mondo vivente, si presenta ancora, specie nella terminologia corrente: si dice che la tal specie vuole sopravvivere, o che il batterio cerca il cibo. Come mai? E’ accettabile?

Un primo motivo può essere quello che la descrizione analitica (causa efficiente), pur dando ragione non basta sempre a dare soddisfacente e completa descrizione del comportamento, che viene più efficacemente rappresentato ricorrendo alla finzione, nei termini più familiari di una volontà. Il comportamento di un batterio è completamente determinato: sono note le cause efficienti (chemiotassi) che fanno si che si muova verso il cibo. Tuttavia è più semplice e comprensibile raggruppare tutte queste cognizioni dettagliate, analitiche, riduzioniste, in una descrizione complessiva, sintetica, organica, e dire che il comportamento del batterio è quello di dirigersi verso il cibo, come se il cibo lo attirasse. Come se, cioè, il cibo, la sopravvivenza, la possibilità di riprodursi, fosse la causa finale del suo comportamento. La finzione di una causa finale, il “come se” aiuta a dare descrizione complessiva ad una serie articolata e complessa di concause efficienti.

Un secondo motivo ricade nell’ignoranza del fenomeno, e nella necessità di usare dei termini noti per un fenomeno ignoto. Ad essere rigorosi, nel voler dare ragione di un fenomeno siamo costretti ad una scelta: o ad attribuire all’oggetto di osservazione una volontà, sia essa propria o altrui e più o meno libera, oppure siamo costretti a negarla, a osservare unicamente le catene causa-effetto che ci è possibile determinare, e —soprattutto— a non dire nulla sulla causalità di quelle che non siamo stati (ancora) in grado di osservare con il grado di soddisfacente scientifica esattezza. La scelta è cioè tra osservare il comportamento di ciò che ci circonda descrivendolo complessivamente in termini di causa finale, o viceversa rappresentare la parte nota di un fenomeno in termini di causa efficiente e tacere del resto, Il tacere non gioverebbe alla ricerca, per cui ricorriamo, usando la finzione di una causa efficiente, a termini noti per fenomeni ignoti. Diciamo che il batterio “si dirige” verso il cibo, ma non che il grave “si dirige” verso valle. Qui compare una importante distinzione nel nostro comportamento di osservatori, a seconda se osserviamo oggetti del mondo vivente o quelli inanimati, con una zona intermedia d’ombra ancor più imbarazzante. Solitamente assoggettiamo gli oggetti del mondo vivente al mondo fluido delle cause finali, in primis noi stessi in quanto soggetti liberi e sovrani delle nostre azioni e dei nostri pensieri, e in secondo luogo gli esseri viventi che in grado via via minore partecipano della nostra libertà. Viceversa descriviamo il mondo inanimato come sotto il dominio delle cause efficienti: leggi determinate dalla rigorosa metodologia dell’analisi propriamente scientifica. Come ci pare ridicolo dotare di volontà un sasso, siamo a disagio nel pensare ad un uomo il cui comportamento è determinato da leggi,
In sintesi, se il fenomeno è noto siamo lieti di ricorrere alle cause efficienti, ma se queste sono ignote, occorre pensare ad una causa finale.

Un terzo motivo viene dal modo in cui osserviamo il mondo in funzione di una previsione. La causa finale “inventata” come ipotesi di ricerca descrive un fenomeno in termini di causalità inversa, cioè indica la causa apparente che sembra attrarre il fenomeno, come se fosse quella la sua volontà, in attesa che sia possibile descrivere il fenomeno in termini di causa o più spesso cause e efficienti che sono quelle che lo spingono necessariamente ad accadere.
Causa efficiente e causa finale sono cioè modi di guardare un fenomeno secondo le due possibili direzioni nella freccia del tempo.
La necessità di previsione del mondo che ci circonda, ci costringe a scegliere uno dei due punti di vista: o conosco le dinamiche per cui il fulmine colma la differenza di potenziale tra nube e terra e mi comporto di conseguenza, o devo immaginare un “nome” da dare al suo comportamento prevedibile, e dico che “il fulmine cade verso terra”. Analogamente, o conosco tutti i meccanismi per cui gli organismi viventi evolvono, o attribuirò alle specie la volontà di adattarsi alle mutazioni dell’ambiente al fine di sopravvivere come specie. Né il fulmine né la specie agiscono in base ad una volontà, ma io percepisco il risultato finale (l’esito necessario di un processo deterministico complesso) come se fosse orientato dal fine (che è l’esito necessario). Per inciso, sia il fulmine che l’evoluzione della specie sono eventi compositi, ramificati, frutto di molteplici percorsi di cui solo alcuni pervengono al risultato osservato (la scarica a terra o la sopravvivenza).
Il nostro pensiero, anche quello scientifico, procede dalla necessità di prevedere il comportamento dell’ambiente. La previsione deve procedere dal futuro al presente: dall’evento atteso alle sue ripercussioni sulla situazione presente, per poi ricostruire il tempo nella sua normale freccia, e “costruire” un futuro coerente con il nostro desiderio. Nella nostra ricerca di comprensione dei fenomeni partiamo quindi dalla causa finale alla ricerca della causa efficiente.

Alla luce di queste considerazioni, come porci dei confronti dell’uso della causa finale?
Possiamo dunque accettare, anche in una prospettiva scientifica, riduzionista, analitica, l’uso della “causa finale”? A mio avviso si, a condizione che questa sia per così dire il segnaposto, la denominazione temporanea, il diminutivo, una ipotesi, per un fenomeno che intendiamo analizzare e descrivere nei termini di un complesso articolato di cause efficienti, Anche se poco rigoroso, certamente è preferibile dire che la causa finale del movimento del batterio è la presenza di cibo, piuttosto che dire che questa è la sua volontà,
Più useremo terminologia finalistica, più ammetteremo di ignorare le cause efficienti, e di avere termini insoddisfacenti a descrivere il fenomeno nel suo complesso.

Anche questa precisazione non esclude l’abuso del termine “causa”. Infatti l’analisi del fenomeno in termini di cause efficienti non esaurisce la curiosità e il bisogno di senso.
Perché il grave cade? Perché il fulmine colpisce l’albero? Perché il batterio si muove verso la concentrazione di nutrienti? Perché il fiore fiorisce? Perché la vita?
Le risposte analitiche nascono dalla necessità di spiegare il fenomeno e spostano il quesito dal “perché” al “come”. Perciò non sono mai del tutto soddisfacenti a chi si interroga sul perché, e lasciano a chi lo desidera la possibilità di vedere dietro ad una sequenza di “come” un residuo “perché”, un piano, un disegno, una volontà, una causa finale preordinata che giace dietro a qualsiasi complesso di cause efficienti.

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Self-verification theory, identità e necessità di previsione · 2008-03-15 by mmzz

Self-verification theory assumes that stable self-views provide people with a crucial source of coherence, an invalueable means of defining their existence, organizing experience, predicting future events, and guiding social interaction.. Moreover, by stabilizing behavior, stable self-views make people more predictable to others. This added predictability will, in turn, stabilize the way others respond to people. In this way, stable self-views foster a coherent social environment, which, in turn, further stabilizes their self-views.

In questo articolo lo psicologo Swann esprime in modo molto chiaro la sua self-verification theory. Pensata per le relazioni umane, è molto forte la tentazione di applicarla indiscriminatamente alla più ampia categoria dei sistemi viventi. Il meccanismo (tutto cibernetico) di stabilizzazione attraverso una retroazione potrebbe applicarsi benissimo in altri ambiti: la necessità di previsione del comportamento degli elementi di un sistema fa si che questo si stabilizzi. La stabilizzazione del sistema gli permette di prevedere come si comporterà il proprio ambiente e aumentare la propria possibilità di sopravvivenza.

Ho già osservato che la definizione dei confini esistenziali (la closure del sistema) è frutto del contrasto tra le forze di identificazione provenienti dall’ambiente e quelle endogene di definizione dell’identità. Questo processo, invece di essere una lotta tra sistema e ambiente, può essere stabilizzato da quanto descrive Swann. I sistemi tra loro, e il sistema e il suo ambiente, sono in equilibrio.
Resta da indagare quale sia il ruolo della comunicazione in questo processo di stabilizzazione, da analizzare con criteri semiotici.

Questa interazione sembra porre in evidenza il fatto che la prevedibilità in vista della propria sopravvivenza sia la causa finale, quella che “tira” verso di se il comportamento del sistema. Anche in assenza di una esplicita volontà, o anche ammettendo che questa volontà in effetti non esista mai (nemmeno nell’uomo), un sistema si attiverà nella sistematica esplorazione degli spazi delle possibilità per rendere l’ambiente prevedibile e rendersi prevedibile allo stesso. Questa esplorazione può essere completamente cieca (affidata al caso, alla mutazione randomica del comportamento) oppure regolata dal fine tuning del processo di retroazione attraverso il quale il sistema è connesso al suo ambiente. Grazie a questo processo un sistema di ordine superiore potrà a sua volta diventare un sistema stabile.

Sempre Swann descrive questo anello di retroazione come Identity negotiation in questi termini: Identity negotiation processes thus serve as the “thread” that holds the fabric of social interaction together . Secondo questo punto di vista la “colla” che tiene insieme un sistema è la sua capacità di comunicazione. Un criterio per l’identificazione di un sistema (la tendenza dello stesso a percepirsi ed essere percepito come tale) è quindi quello del suo confine comunicativo (closure o ambito di vigenza di un codice): ad esempio nazione-lingua, comunità-dialetto, professione-gergo, comunità economica-scambio commerciale, religione-credo, cellula-dna, eccetera.

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Semiotica, volontá e causa efficiente · 2008-03-12 by mmzz

Per Peirce la semiosi, l’atto di significare, coinvolge 3 soggetti (segno, oggetto, interpretante).
Da ciò che comprendo, perché vi sia segno deve esservi un destinatario. Che sia intenzionale e previsto in anticipo o meno, il segno – stando a Pierce – deve avere chi lo interpreta per essere tale. Ciò implica, se non una volontà o un finalismo esplicito, almeno una causa finale: un segno è riconosciuto come tale procedendo a ritroso dall’interpretante al segno stesso. L’assenza di un interpretante destinatario del segno, nega a questo la sua dignità: se va a vuoto il suo intento di significare, il segno è privo di senso e non è più tale, ma “rumore”, sfondo, schermo. Se non trattenuto, si perde e si dissolve.

Venendo alla considerazione metodologica di Eco secondo cui la semiotica è retta da una sorta di principio di indeterminatezza (Trattato di semiotica generale) suppongo che Eco si riferisca al fatto che l’osservatore debba essere ricompreso nell’osservazione, in quanto l’atto di osservare determina o comunque influenza l’oggetto stesso.
In base a quanto detto poco sopra, il semplice osservare con intento semiotico innesca o può innescare – ipso facto – la presenza di un segno, indipendentemente da come questo sia stato posto. Qualsiasi cosa, se osservata con l’intenzione di leggere un segno, potrà presentarne uno: penso ai “segni degli dei” o ai “segni del destino”, dall’aruspicia alla paranoia.

Mi pare che perché vi sia comunicazione si debbano incontrare due volontà, o “volontà”: quella di chi pone il segno e di chi lo interpreta. Data l’arbitrarietà del segno, appare stupefacente che ciò possa avvenire. Tuttavia è quanto accade nella comunicazione umana, tra animali o addirittura tra piante, alle quali è difficile attribuire volontà. Mi pare che questa della volontà, dell’intenzione o comunque di una causa finale sia un nodo di difficile soluzione.

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dialogo (molto) scettico · 2008-02-09 by mmzz

- Vede, signorina, io sono uno scettico.

- Caro signore, come fa ad esserne così sicuro?

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biosemiotics, ambiente, umwelt · 2008-01-30 by mmzz

Nella riflessione sul codice e l’identità vi è un ‘elemento centrale che mi sembra la semiotica abbia cercato di affrontare. Nell’input di un sistema a mio avviso vanno distinti dati e codice, ovvero input che altera il comportamento e input che non lo altera, e che alimenta la produzione di un output invariato. Il termostato continua a produrre regolazione di temperatura qualsiasi sia il suo input, mentre un sistema sociale o vivente può cambiare output perché nel suo input ha ricevuto l’equivalente di un nuovo programma. Un’idea, un modo di vita, del DNA cambiano il modo in cui il sistema si relaziona con l’ambiente.

Sharov in una presentazione del concetto di Umwelt proprio della biosemiotica associa un sistema al suo ambiente, in una prospettiva epistemologica precisa (“pragmatismo”) per cui

Most ecologists assume that all organisms in the ecosystem share the same environment, but Uexküll thought that organisms may have different Umwelts even if they live in the same place. A stem of a blooming flower is perceived differently by an ant, cicada-larva, cow, and human.[…] On the contrary, Umwelt is subjective and is not accessible for direct measurement for the same reason that we have no direct access to perceptions of other people. e che
it is impossible to separate the structure of an organism from its Umwelt

inoltre questo detemina una particolare definizione di spazio

Umwelt-theory gives a new interpretation of space. Instead of a Newtonian absolute and transcendental space, Uexküll considers a functional space of an organism. Most biologists think that space exists independently from organisms that inhabit it. Uexküll viewed it differently: animals construct their own space by establishing relationships between meaning-carriers (i.e., signs). This does not mean that organisms do not interact; but an interaction is interpreted differently by each participant depending on its own model of space. The most primitive space is mapped on organism’s body. Signals are identified according to the location of receptors on the body. More smart animals can identify objects at a distance; their space can be viewed as a set of objects that they know. Fast-moving animals can measure distance; hence they perceive space as a volume that contains various things.

la percezione dello spazi che ne discende è totalmente soggettiva.

Perception of space is intrinsically related to the hierarchical structure of living organisms. Signs perceived by a sensor cell are transferred and then interpreted by the whole organism in a double way: as a location of that sensor cell in the organism (local sign) and as a content of the signal (content sign).

sistema e ruolo semiotico dell'ambiente · 2008-01-30 by mmzz

ho sempre incontrato la tradizionale descrizione di un sistema (ambiente,input,sistema,output,interfaccia) focalizzata in modo eccessivo sul processo di trasformazione dell’input in output.
Ambiente ed interfaccia sono invece trascurati. In particolare l’ambiente viene considerato un puro vettore della retroazione o il “luogo” dal quale proviene l’input e dove si dirige l’output. In realtà l’ambiente svolge un ruolo di straordinaria importanza in quanto è esso stesso un sistema specializzato nella trasmissione. In particolare penso sia interessante il suo ruolo attivo nella trasmissione dei segnali. L’ambiente, come contesto che veicola il segnale, è soggetto a rumore che tende a soffocarlo o disperderlo, e a processi di amplificazione e distorsione che possono garantirle la trasmissione, anche alterandolo.

Vorrei azzardare la congettura che l’ambiente tende ad amplificare il segnale che riconosce e “comprende” e invece a distruggere o lasciare che venga soffocato dal rumore quello che ignora. Per compiere questa operazione e svolgere questo ruolo semiotico, deve possedere un codice, una grammatica per riconoscere il segnale formulato correttamente, una semantica per individuarne l’appropriatezza, essere insomma un linguaggio.

Se si considera un sistema complesso costituito da più sistemi che interagiscono tra loro, un altro ruolo che l’ambiente ricopre è quello di indirizzare l’input verso il sistema appropriato. Questo presuppone che sia l’ambiente ad avere una “visione di sé” o meglio una mappa delle proprie funzionalità.

Così ogni sistema riceve solo (o prevalentemente) gli input ragionevolmente ben formati, dotati di senso, e correttamente indirizzati. Un malfunzionamento dell’ambiente innesca una “sregolazione” della funzionalità di tutti i sistemi che vi sono immersi. Può avvenire che il codice dell’ambiente non sia più quello adatto ai sistemi, e che vengano amplificati segnali che andavano soppressi e viceversa. Può capitare anche che gli input vengano costantemente indirizzati al sistema “sbagliato”, aumentando l’inefficienza complessiva, oppure che sia impossibile smaltire gli output verso la loro destinazione.

L’ambiente consente che i vari sistemi che compongono un sistema di ordine superiore possano comunicare e scambiarsi input e output. Il ruolo che svolge non è neutro, non è solo un vettore, ma un sistema attivo.

Vedo conferma di questa ipotesi nello stretto legame tra un organismo e il suo ambiente funzionale, che non coincide con lo spazio fisico in cui è immerso, delineato nel concetto di Umwelt .

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arte degenerata, degradata e degradante e arte di merda · 2008-01-25 by mmzz

Creativita’ artistica e rifiuto, scarto, deiezione, dechet di varie specie hanno uno stretto rapporto.
Azzardo una tassonomia:

C’e’ chi trasforma il rifiuto in arte attraverso processi di conservazione ed etichettatura (merde d’artiste di Piero Manzoni) o chi trasforma il rifiuto in opera d’arte come le automobili compresse di César o l’orinale di Duchamp . In questo caso l’identita’ di opera d’arte viene attribuita al rifiuto da parte dell’artista che lo usa come materia prima in un processo di trasformazione creativa. Il processo deve tutto all’artista: prima c’e un rifiuto, poi l’opera d’arte.

In altri casi e’ il processo stesso di produzione del rifiuto a trasformarsi in opera d’arte, come avviene per le macchine-cloaca che producono merda di Wim Delvoye . L’artista inventa una macchina per produrre feci, automatizza un processo poietico che per quanto imperfetto (“even people who never went to school make faeces better than my machines.”) non puo’ non richiamare il processo creativo dell’artista stesso. Una metafora che gioca efficacemente sul processo di identificazione della creazione-produzione del rifiuto con quello artistico. L’opera d’arte di Delvoye in questo caso mette a nudo che se il processo avviene fuori da qualsiasi estetica condivisa salta il concetto di arte: viene prodotta solo merda. Si puo’ riflettere anche sulla difficile commerciabilita’ di una tale arte…

Abbiamo quindi il rifiuto come prodotto e il rifiuto come processo. Ma non ci si puo’ fermare qui: occorre considerare l’ambiente: pubblico, critica e mercato. L’opera puo’ nascere opera d’arte ed essere considerata rifiuto o viceversa, cio’ che l’artista rifiuta essere accolto come capolavoro (o comunque un buon investimento).

Le opere d’arte non intese inizialmente (identificate) come rifiuto dall’artista possono essere considerate tali dal pubblico, dai critici o dal potere politico proprio perche’ , per dirla eufemisticamente, non ne condividono il contesto estetico: ad esempio l’arte degenerata (cubista, espressionista, dadaista, astratta) venne identificata come rifiuto (e distrutta) dall’estetica nazista “orientata in base ai principi del nazionalsocialismo”. Ogni rivoluzione politica ha i suoi artisti e i suoi rifiuti. Salvo poi che con la controrivoluzione i ruoli si invertano.

Rifiuto dell’arte o arte-rifiuto, il processo creativo sembra essere comunque associato alla produzione di una scoria. L’ultima parola sembra averla il mercato: le opere degli artisti degenerati ora sono oggetto di investimento e speculazione, mentre “l’arte eterna” nazista non ha piu’ la stessa fortuna, anche se ci sono amatori per ogni genere.

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