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Semiotica, volontá e causa efficiente · 2008-03-12 by mmzz

Per Peirce la semiosi, l’atto di significare, coinvolge 3 soggetti (segno, oggetto, interpretante).
Da ciò che comprendo, perché vi sia segno deve esservi un destinatario. Che sia intenzionale e previsto in anticipo o meno, il segno – stando a Pierce – deve avere chi lo interpreta per essere tale. Ciò implica, se non una volontà o un finalismo esplicito, almeno una causa finale: un segno è riconosciuto come tale procedendo a ritroso dall’interpretante al segno stesso. L’assenza di un interpretante destinatario del segno, nega a questo la sua dignità: se va a vuoto il suo intento di significare, il segno è privo di senso e non è più tale, ma “rumore”, sfondo, schermo. Se non trattenuto, si perde e si dissolve.

Venendo alla considerazione metodologica di Eco secondo cui la semiotica è retta da una sorta di principio di indeterminatezza (Trattato di semiotica generale) suppongo che Eco si riferisca al fatto che l’osservatore debba essere ricompreso nell’osservazione, in quanto l’atto di osservare determina o comunque influenza l’oggetto stesso.
In base a quanto detto poco sopra, il semplice osservare con intento semiotico innesca o può innescare – ipso facto – la presenza di un segno, indipendentemente da come questo sia stato posto. Qualsiasi cosa, se osservata con l’intenzione di leggere un segno, potrà presentarne uno: penso ai “segni degli dei” o ai “segni del destino”, dall’aruspicia alla paranoia.

Mi pare che perché vi sia comunicazione si debbano incontrare due volontà, o “volontà”: quella di chi pone il segno e di chi lo interpreta. Data l’arbitrarietà del segno, appare stupefacente che ciò possa avvenire. Tuttavia è quanto accade nella comunicazione umana, tra animali o addirittura tra piante, alle quali è difficile attribuire volontà. Mi pare che questa della volontà, dell’intenzione o comunque di una causa finale sia un nodo di difficile soluzione.