causa efficiente, causa finale, volontà e analisi scientifica · 2008-03-16 by mmzz
E’ difficile parlare di causa, se la si mette alla fine del processo di cui la si ritiene, appunto, causa. Come è possibile che qualcosa possa essere causa di un processo senza esserne origine, motivo, ragione? Aristotele chiama causa efficiente ciò che dà origine e inizio a qualcosa, distinguendola dalle altre tre cause: materiale (ciò di cui la cosa è fatta), formale (la sua forma), finale (ciò a cui tende). La causa efficiente della caduta di un grave è nota: la forza di gravità. Pare eccessivo —da quando conosciamo i meccanismi della gravità— voler a tutti i costi dotare il grave di una volontà propria, quella di ricongiungersi alla massa terrestre: per farlo occorrerebbe ricorrere ad una volontà preordinatrice che fissa le leggi della natura in modo tale da determinare le cause efficienti (ora note) in vista di una causa finale (che resta ignota).
La causa finale, in modo più o meno aperto e specie parlando del mondo vivente, si presenta ancora, specie nella terminologia corrente: si dice che la tal specie vuole sopravvivere, o che il batterio cerca il cibo. Come mai? E’ accettabile?
Un primo motivo può essere quello che la descrizione analitica (causa efficiente), pur dando ragione non basta sempre a dare soddisfacente e completa descrizione del comportamento, che viene più efficacemente rappresentato ricorrendo alla finzione, nei termini più familiari di una volontà. Il comportamento di un batterio è completamente determinato: sono note le cause efficienti (chemiotassi) che fanno si che si muova verso il cibo. Tuttavia è più semplice e comprensibile raggruppare tutte queste cognizioni dettagliate, analitiche, riduzioniste, in una descrizione complessiva, sintetica, organica, e dire che il comportamento del batterio è quello di dirigersi verso il cibo, come se il cibo lo attirasse. Come se, cioè, il cibo, la sopravvivenza, la possibilità di riprodursi, fosse la causa finale del suo comportamento. La finzione di una causa finale, il “come se” aiuta a dare descrizione complessiva ad una serie articolata e complessa di concause efficienti.
Un secondo motivo ricade nell’ignoranza del fenomeno, e nella necessità di usare dei termini noti per un fenomeno ignoto. Ad essere rigorosi, nel voler dare ragione di un fenomeno siamo costretti ad una scelta: o ad attribuire all’oggetto di osservazione una volontà, sia essa propria o altrui e più o meno libera, oppure siamo costretti a negarla, a osservare unicamente le catene causa-effetto che ci è possibile determinare, e —soprattutto— a non dire nulla sulla causalità di quelle che non siamo stati (ancora) in grado di osservare con il grado di soddisfacente scientifica esattezza. La scelta è cioè tra osservare il comportamento di ciò che ci circonda descrivendolo complessivamente in termini di causa finale, o viceversa rappresentare la parte nota di un fenomeno in termini di causa efficiente e tacere del resto, Il tacere non gioverebbe alla ricerca, per cui ricorriamo, usando la finzione di una causa efficiente, a termini noti per fenomeni ignoti. Diciamo che il batterio “si dirige” verso il cibo, ma non che il grave “si dirige” verso valle. Qui compare una importante distinzione nel nostro comportamento di osservatori, a seconda se osserviamo oggetti del mondo vivente o quelli inanimati, con una zona intermedia d’ombra ancor più imbarazzante. Solitamente assoggettiamo gli oggetti del mondo vivente al mondo fluido delle cause finali, in primis noi stessi in quanto soggetti liberi e sovrani delle nostre azioni e dei nostri pensieri, e in secondo luogo gli esseri viventi che in grado via via minore partecipano della nostra libertà. Viceversa descriviamo il mondo inanimato come sotto il dominio delle cause efficienti: leggi determinate dalla rigorosa metodologia dell’analisi propriamente scientifica. Come ci pare ridicolo dotare di volontà un sasso, siamo a disagio nel pensare ad un uomo il cui comportamento è determinato da leggi,
In sintesi, se il fenomeno è noto siamo lieti di ricorrere alle cause efficienti, ma se queste sono ignote, occorre pensare ad una causa finale.
Un terzo motivo viene dal modo in cui osserviamo il mondo in funzione di una previsione. La causa finale “inventata” come ipotesi di ricerca descrive un fenomeno in termini di causalità inversa, cioè indica la causa apparente che sembra attrarre il fenomeno, come se fosse quella la sua volontà, in attesa che sia possibile descrivere il fenomeno in termini di causa o più spesso cause e efficienti che sono quelle che lo spingono necessariamente ad accadere.
Causa efficiente e causa finale sono cioè modi di guardare un fenomeno secondo le due possibili direzioni nella freccia del tempo.
La necessità di previsione del mondo che ci circonda, ci costringe a scegliere uno dei due punti di vista: o conosco le dinamiche per cui il fulmine colma la differenza di potenziale tra nube e terra e mi comporto di conseguenza, o devo immaginare un “nome” da dare al suo comportamento prevedibile, e dico che “il fulmine cade verso terra”. Analogamente, o conosco tutti i meccanismi per cui gli organismi viventi evolvono, o attribuirò alle specie la volontà di adattarsi alle mutazioni dell’ambiente al fine di sopravvivere come specie. Né il fulmine né la specie agiscono in base ad una volontà, ma io percepisco il risultato finale (l’esito necessario di un processo deterministico complesso) come se fosse orientato dal fine (che è l’esito necessario). Per inciso, sia il fulmine che l’evoluzione della specie sono eventi compositi, ramificati, frutto di molteplici percorsi di cui solo alcuni pervengono al risultato osservato (la scarica a terra o la sopravvivenza).
Il nostro pensiero, anche quello scientifico, procede dalla necessità di prevedere il comportamento dell’ambiente. La previsione deve procedere dal futuro al presente: dall’evento atteso alle sue ripercussioni sulla situazione presente, per poi ricostruire il tempo nella sua normale freccia, e “costruire” un futuro coerente con il nostro desiderio. Nella nostra ricerca di comprensione dei fenomeni partiamo quindi dalla causa finale alla ricerca della causa efficiente.
Alla luce di queste considerazioni, come porci dei confronti dell’uso della causa finale?
Possiamo dunque accettare, anche in una prospettiva scientifica, riduzionista, analitica, l’uso della “causa finale”? A mio avviso si, a condizione che questa sia per così dire il segnaposto, la denominazione temporanea, il diminutivo, una ipotesi, per un fenomeno che intendiamo analizzare e descrivere nei termini di un complesso articolato di cause efficienti, Anche se poco rigoroso, certamente è preferibile dire che la causa finale del movimento del batterio è la presenza di cibo, piuttosto che dire che questa è la sua volontà,
Più useremo terminologia finalistica, più ammetteremo di ignorare le cause efficienti, e di avere termini insoddisfacenti a descrivere il fenomeno nel suo complesso.
Anche questa precisazione non esclude l’abuso del termine “causa”. Infatti l’analisi del fenomeno in termini di cause efficienti non esaurisce la curiosità e il bisogno di senso.
Perché il grave cade? Perché il fulmine colpisce l’albero? Perché il batterio si muove verso la concentrazione di nutrienti? Perché il fiore fiorisce? Perché la vita?
Le risposte analitiche nascono dalla necessità di spiegare il fenomeno e spostano il quesito dal “perché” al “come”. Perciò non sono mai del tutto soddisfacenti a chi si interroga sul perché, e lasciano a chi lo desidera la possibilità di vedere dietro ad una sequenza di “come” un residuo “perché”, un piano, un disegno, una volontà, una causa finale preordinata che giace dietro a qualsiasi complesso di cause efficienti.