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Bauman, intervista sull'identità · 2008-05-28 by mmzz

Zygmunt Bauman, in Intervista sull’identità (Laterza, 2003,2007) rmette in evidenza alcuni aspetti essenziali per calare nella realtà sociologica ciò che penso in merito a identità, identificazione ed importanza del codice e del segno. Racconta del censimento della popolazione nella Polonia multietnica prima della prima guerra mondiale. Dice Bauman (p.15): L’obiettivo di riplasmare questo amalgama con conversioni e assimilazioni forzate allo scopo di ottenere una nazione omogenea o quasi […] era forse perseguito con forza da una parte della élite politica, ma era ben lontano dall’essere universalmente accettato e dall’essere ricercato in maniera coerente, un progetto lontanissimo dal compimento. Date queste premesse il processo apparentemente solo descrittivo del censimento (una rilevazione ufficiale della popolazione) era in realtà finalizzato ad una normazione. Il censimento serviva cioè a incasellare (identificare) le persone anche se queste non sentivano come identità quella che l’identificazione del censimento attribuiva loro, Infatti, (p.16) In circa un milione di casi i rilevatori del censimento non riuscirono a ottenere risposta su questo punto: la gente da loro interrogata semplicemente non riusciva ad afferrare il significato di parole come “nazione” e “avere una nazionalità”. Le parole di Barthes sulla “langue qui oblige a dire” assumono alla luce di questa narrazione una dimensione preoccupante, specie se si considera a cosa sono serviti i censimenti nelle mani dei nazisti e come sono state usate le appartenenze etniche e religiose pochi anno dopo. La parola “nazione”, prima assente dal vocabolario, appena nata assume una dimensione prescrittiva prima ancora di quella descrittiva: la connotazione precede la denotazione. L’ideologia è la matrice stessa del significato. Prosegue Bauman: […] i cittadini censiti continuavano ostinatamente a dare le sole risposte che per loro avevano un senso: “siamo locali”, “siamo di questo posto”, “siamo di qui”, “questa è la nostra terra”. Alla fine i responsabili del censimento dovettero arrendersi e aggiungere la voce “locali” alla lista ufficiale delle nazionalità…. Bauman conclude questa narrazione introducendo un elemento di mimesis come finzione (p.19) dicendo che L’idea di “identità”, e di “identità nazionale” in particolare, non è un parto “naturale“dell’esperienza umana, non emerge da questa esperienza come un lapalissiano “fatto concreto”. E’ un’idea introdotta a forza nella Lebenswelt degli uomini e delle donne moderni, e arrivata come una finzione. Si è congelata in un “fatto”, un “elemento dato”, proprio perché era stata una finzione e perché si è allargato un divario, dolorosamente percepito, tra ciò che quell’idea implicava, insinuava, suggeriva, e lo :status quo ante […]. In altre parole, la finzione consiste nella creazione di una parola che è apparentemente naturale, che fa parte dell’ordine naturale delle cose, che descrive il mondo così come lo troviamo, ma che, pur senza fare riferimento a un significato autentico (vero perché socialmente condiviso), ha una tale portata connotativa ed ideologica da non aver nemmeno bisogno di denotare. Penso che un altro esempio di parola di questo tipo sia “razza”. Il fine di queste parole è solo apparentemente descrittivo, ma in realtà normativo e regolatorio sin dall’inizio. Sono parole adottate allo scopo di costituire per chi le interpreta un codice a cui obbedire: la mia nazione, la mia razza mi identificano, esercitano una pressione su come mi comporto, e se necessario si pongono immediatamente come opposizione alla tua nazione e razza. Nelle parole di Bauman questa sovrapposizione di codice a cui obbedire ed identità forzata dalle parole è resa assai bene: L’identità può entrare nella Lebenswelt solo come un compito, un compito non ancora realizzato, non compiuto, come un appello, come un dovere e un incitamento ad agire: e il nascente Stato moderno ha fatto tutto il necessario per rendere obbligatorio tale compito nell’ambito della sua sovranità territoriale. L’identità nata come finzione aveva bisogno di un gran dispiegamento di coercizione e convincimento per irrobustirsi e coagularsi in una realtà (più correttamente: nella sola realtà pensabile); e nella storia della nascita e maturazione dello Stato moderno questi due elementi abbondano (p.20) Non possono sfuggire i collegamenti con quanto dice Barthes sulla “naturalizzazione” del segno e della sua apparente innocenza e sul potere del codice di generare il “mondo così com‘è”. I segni non sono solo parole: il segno si rivolta contro il segno, e si bruciano i libri. Il segno di un confine su una carta geografica chiede vite a milioni per spostarsi di qualche millimetro.

Chiaramente non è solo lo Stato a cercare l’identificazione. Nella modernità priva di appigli solidi che Bauman chiama liquida e che tratteggia meglio nella seconda parte del testo (in toni abbastanza apocalittici, ma con un solo, luminoso cenno di speranza) le persone vengono sbalzate in una situazione di incertezza sistematica e costante che investe ogni aspetto della vita sociale, professionale, affettiva e che alla quale non sembra esservi riparo. In questo contesto Dal momento che l’identità perde i suoi ancoraggi sociali che la fanno apparire “naturale”, predeterminata e non negoziabile, l’“identificazione” diventa sempre più importante in quegli individui che cercano disperatamente un “noi” di cui entrare a far parte (p25) visto che La voglia di identità nasce dal desiderio di sicurezza[…]. (p.31).

Quindi abbiamo lo Stato (con la nascita dello Stato nazionale) come fonte di identificazione, accompagnata dalla ricerca di una sicurezza messa particolarmente in discussione dalla mancanza di identità “naturali”. A questi due processi di identificazione Bauman aggiunge un terzo aspetto non trascurabile, anche se da lui poco sviluppato, di identità al negativo: Max Frisch […] ha definito l’identità come il rigetto di quello che gli altri vogliono che tu sia” (p.43)
Viene cioè sinteticamente espresso il contrasto, la composizione, di due forze opposte: l’identificazione (quello che gli altri vogliono che tu sia) con l’identità (il rigetto), che nasce come forza opposta.

Un ultimo tratto mi ha colpito in modo particolarmente inquietante, visto che riguarda la nascita delle comunità da odiose ed inumane violenze. Dal depotenziamento del ruolo dello Stato e dalla sua distruzione Bauman deriva l’insicurezza che porta agli eccessi che si sono visti in ex-Jugoslavia, in cui “gli impulsi atavici” […] sono stati laboriosamente costruiti mettendo il vicino contro il vicino, il congiunto contro il congiunto, e trasformando tutti coloro marchiati come membri di una futura, progettata comunità in complici attivi del crimine […]. per cui […] infrangere uno ad uno i più sacri dei tabù e farlo pubblicamente […] erano in realtà atti di creazione di una comunità[…] (p.67). Le vittime della violenza vengono distrutte perché non abbastanza diverse: occorre la violenza di cui sono oggetto perché diventino tali.

Molti altri sono i passi e le tematiche interessanti di questo breve libro-intervista: ho messo in evidenza solo quelli che si riferiscono al segno all’identità e all’identificazione.