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reciprocità tra comunità FOSS e imprese · 2009-06-18 by mmzz

Convegno Open source Systems 2009.

Si è usata spesso la parola “ecosistema”, e dei rapporti che ci sono tra le comunità open source e le imprese che le usano o cercano di farlo per produrre il software col quale fanno business. Il termine “usare” è esplicito ma corretto almeno in alcuni casi notevoli e sempre più frequentemente. In certi casi è esplicito il tentativo di controllo delle community da parte delle imprese. Volendo sarebbe perfettamente possibile dare del fenomeno una lettura marxiana (meglio ancora nella chiave di Braudel). L’industria del software, prima teme e combatte l’open source che minaccia i
modelli consolidati, poi capisce come funziona e cerca di controllarlo perché si rende conto che ha dei vantaggi, (o comunque accetta che è così che va il mondo). Poi lo ingloba nelle sue logiche, ma non siamo ancora a questo punto.

Perciò occorre parlare, riferendosi ai rapporti tra imprese e open source, in termini di sostenibilità: come devono essere perché possano essere stabili e durevoli? Va tenuto presente che in questa fase: 1) il mercato del software è composto anche da molti prodotti OS, che in alcuni casi lo hanno di fatto creato, dal momento che prima c’era monopolio; 2) molte imprese ormai ci sono
fino al collo e fino al 40% dei componenti delle principali community lavorano per/sono pagati da/sono finanziati da] imprese; e 3) qualche impresa comincia preoccuparsi che una community che controlla un prodotto per lei strategico possa introdurre instabilità nei suoi piani.

Si intuisce dove vado a parare. Come può tenere tutto questo? Ci deve essere un contratto, o almeno un vincolo più o meno tacito tra i vari elementi della catena di produzione: le imprese vedono le community come una specie di subcontractor o outsourcer dotato di molta autonomia, a cui “affidano” i progetti per loro strategici o con partecipazione diretta o con sostegno finanziario. Ovviamente cercheranno di controllarle sempre di più. Le comunità accettano il coinvolgimento delle imprese che sono sia loro utenti che finanziatori che contributors (forniscono codice), a condizione di mantenere una certa autonomia.

Infine gli individui che partecipano ai progetti agiscono per motivazioni intrinseche e/o estrinseche. Potrebbero aver iniziato a contribuire per motivazioni intrinseche (imparare, senso di utilità, having fun) ed essere poi finiti sul libro paga di qualcuno o viceversa essere assegnati ad un progetto
o.s. dal datore di lavoro abituale. Vorrei aggiungere una mia congettura: la community funge da “identity provider” per gli individui, che riescono a negoziare in quel contesto sociale una identità personale stabile che sta alla base delle remunerazioni intrinseche e dei driver etici) e poi accettano di essere remunerati anche estrinsecamente (skei). Ci sarebbe molto da lavorare su questo punto.

Inutile dire che in questo ecosistema ci sono equilibri molto molto delicati (a mio avviso basati sulla reciprocità cfr K.Polany ) e quando saltano tutti si arrabbiano moltissimo: le imprese che non possono prevedere il comportamento delle comunità che producono il loro prodotto strategico, le
comunità che non sanno bene con quali imprese “vanno a letto” e se possono contare sul sostegno che avevano finora; le persone che partecipano, perché ciò che viene messo in gioco è la loro identità.

Sounds familiar? Nella mia realtà lavorativa. le comunità di pratica (o forse solo alcuni elementi di esse) non riescono a negoziare un contratto con le strutture periferiche, mentre riescono a farlo con il centro (con tanto di passaggio alla remunerazione estrinseca). Le strutture periferiche esercitano il potere per [ri]acquistare il controllo che percepiscono di aver perso, temendo che venga compromessa la loro performance. Questo inceppa il processo di produzione e il senso di appartenenza dei partecipanti. Come è possibile rendere sostenibile questo scambio? Con quale reciprocità?