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identity providers · 2009-06-10 by mmzz

Si continua a parlare di fine dello Stato e e di globalizzazione, Credo che nella società globalizzata (e probabilmente effettivamente postmoderna) una delle perdite più pericolose è quella di identità. Le modernità, come ha sottolineato Carlo Galli (Spazi politici. L’età moderna e l’età globale, Bologna, Il mulino, 2001.) ha provveduto —attraverso lo Stato— a innescare una negoziazione con l’individuo, garantendo le sue richieste, nella forma di diritti tutelati, e ottenendone sempre maggior potere di influire sulla vita stessa dell’individuo. questo dialogo si articola tra identità ed identificazione: identità individuale, che proviene dal soggetto che vuole veder svilupparsi le sue ambizioni, mettere in atto delle opportunità (che si vogliono sempre più pari tra tutti) e ampliare la propria sfera vitale. Identificazione, da parte dello Stato che necessita di una sempre maggiore prevedibilità di comportamenti, di armonizzazione delle attività dei singoli, proprio in vista dell’ampliamento della loro sfera di diritti.
La tutela dei diritti di tutti comporta la loro sempre più precisa codificazione ed articolazione. L’identità di ciascuno viene di conseguenza compressa dalla necessità della sfera sociale di identificarlo, con l’attribuzione di comportamenti adeguati, di ruoli e di ritmi che non necessariamente sono congruenti con quelli che ciascuno vorrebbe per sé (cf Roland Barthes comment vivre ensemble).
questo fenomeno è visibile anche su scala globale: comunicazione e spostamenti tendono a stemperare le differenze: sempre più persone condividono gli stessi i luoghi, gli stessi comportamenti, comunicano usando gli stessi i codici se non la stessa lingua, mantengono gli stessi stili di vita, gli stessi costumi. Questo appiattimento è richiesto, perché il mondo come macchina funzioni meglio, e fa parte dell’identificazione che travalica il confine nazionale e si fa globale. Questo crea dei problemi all’identità: da una parte qualcuno rifiuta l’identificazione e si rifugia in identità esagerate, caricaturali, enfatizzando aspetti di tradizione e differenziazione in senso ideologico, e porta all’integralismo o meglio al fanatismo. Dall’altra si scatena una caccia al consumo della differenza cioè alla ricerca di ciò che è diverso e ricco di identità, storia, differenza dal resto ce è tutto uguale. Ciò che spicca in qualche modo viene immediatamente consumato, per non dire depredato per essere assimilato e ricodificato in modo da poter fornire una identità a persone che ne hanno fame. In uno spazio indifferenziato ed uniforme, la località e ciò che può esservi ricondotto diventa prezioso: le specialità gastronomiche locali, le denominazioni di origine territoriale garantite contrastano con prodotti che vengono indifferentemente da qualsiasi parte del mondo, in qualsiasi momento dell’anno. Anche le persone vengono da qualsiasi parte del mondo, spinte dal gradiente che c‘è tra mondo globalizzato e mondo da ancora da globalizzare. In questo si rafforza il ruolo dello Stato, che qualcuno diceva in crisi, un ruolo chiave nella fornitura di identità forti, nazionali, territoriali, ideologiche e perfino religiose più che politiche (il dibattito sulle “radici cristiane dell’Europa” lo testimonia).
La religione, come altri fornitori tradizionali di identità, riacquista forza: sempre meno un fatto interiore, diventa tratto distintivo ed identificatorio, con potenziali sviluppi drammatici come avvenuto non tanto tempo fa in ex-Jugoslavia. In futuro, mi aspetto, il bisogno di identità sarà così forte da rivoluzionare anche lavoro e consumi. Già ora i pattern di consumo denotano le persone che li adottano. Vestiti, vacanze, alimentazione, alloggio: tutti questi sono elementi che (da sempre) identificano. Ma la carica simbolica che gli oggetti di consumo rivestono, al di là delle loro caratteristiche merceologiche e della loro qualità, possono spiegarsi solo per il loro straordinario potere di identificare chi li acquista. Lo stesso oggetto, con la stessa funzione, fabbricato identicamente nello stesso luogo con gli stessi materiali, di differenzia con il suo prezzo e grazie ad elementi simbolici come marchi e altro genere di segnali che tutti sono ben addestrati a decodificare, grazie alla scienza del marketing.
Ma vi sono altri importanti elementi di identificazione, come il lavoro svolto, cioè la posizione ricoperta nella catena della trasformazione del sistema globale di produzione e consumo. “Chi sei” corrisponde sempre di più “cosa fai”. In questo spazio normato, la diversità non ha più luogo, se intesa come l’assenza di una catalogazione nella ramificata tassonomia in cui tutta l’esistenza è strutturata; la diversità non può più essere uno spazio indefinito, un “terrain vague” privo di attribuzione: viceversa l’identità ha luogo all’interno di possibilità definite o definibili nelle diverse identificazioni. Invece la diversità intesa come inadeguatezza al contesto normato, una identità che si contrappone alle identificazioni, il codice dissonante, il comportamento inadeguato che pervicacemente non si adegua, ambiguo o polivalente diventa un problema se non una patologia. I margini di tolleranza, il gioco tra ciò che è esplicitamente consentito (in termini di produzione, comportamento, cultura) e ciò che è vietato si stringono. L’immigrato se irregolare è clandestino (e comunque anche se regolare è tollerato e si deve integrare); le mode possono essere stravaganti ma sono codificate, il cibo deve rispondere a disciplinari e leggi, tutto il meccanismo sociale viene definito e orientato nel suo comportamento da norme esplicite. In questo quadro, oltre allo Stato, alle religioni ed al sistema di produzione, qualsiasi soggetto in grado di fornire identità sarà il benvenuto e capace di ritagliarsi un ruolo (e un potere) sull’individuo e sugli altri identificatori. Superati i partiti ideologici, che fornivano ai propri seguaci (e che si fornivano reciprocamente) legittimazione ai due lati di una ideale frontiera, vediamo comunità di appartenenza, elettive e non territoriali, che possono trovare i propri luoghi non solo nel territorio ma nella rete, e che forniscono il contesto e tutti gli strumenti necessari all’individuo per negoziare una sua identità. Un soggetto qualsiasi potrà soddisfare la propria necessità di essere diverso dagli altri e nello stesso tempo adeguato al contesto appoggiandosi a diversi fornitori di identità, degli identity provider che gli daranno tutti gli attrezzi per negoziare e difendere una identità: legittimazione, codici interpretativi, appartenenza, motivazioni, senso di vivere una vita piena. Saranno sette, comunità, supermercati (con fidelity card che saranno carte d’identità), partiti, datori di lavoro tradizionali o comunità di produzione come quella open source, gruppi di azione, sportivi, eccetera. Finora, se non quelli che svolgono attività di lobbying, non hanno fatto sentire politicamente il loro peso, ma in futuro potranno farlo. La merce più preziosa in uno spazio uniforme, il bene più necessario oltre i bisogni primari, sarà l’identità. E chiunque sia in grado, autorevolmente, di dire a qualcuno “tu sei…”, e dargli un posto, un a appartenenza e un ruolo, acquisterà peso e chiederà qualcosa in cambio, così come lo Stato ha chiesto —nella modernità— libertà in cambio di tutela della libertà.