1) L’umanizzazione della macchina.
Spesso leggiamo che “la tecnologia X fa Y a Z” e non che “tizio usa X per fare Y a Z.”: questo linguaggio ostacola la attribuzione di responsabilità.
Se vengo investito da un’auto, non dirò che la tecnologia automobilistica è responsabile del mio investimento, ma che sono stato investito perché tizio non ha rispettato il codice della strada, o che il costruttore ha progettato male la tal parte, o che la segnaletica era carente, ecc…
L’oggetto di per se non è responsabile di nulla, ma i vari attori che costruiscono l’ecosistema del suo impiego lo sono: chi progetta/programma/vende/impiega, ciascuno per la parte di azione compiuta attraverso la macchina che gli compete.
Se al contrario attribuiamo alla tecnologia una data azione, deresponsabilizziamo questi attori, schivando la vera difficoltà che risiede nell’identificare e ripartire i profili di responsabilità tra loro.
Il rendere intenzionalmente antropomorfa (‘autonoma’, ‘intelligente’), o sfruttare l’inclinazione umana di considerare come tale qualsiasi tecnologia equivale a un esplicito tentativo di fuga dalla propria responsabilità, inducendo a credere che esista un soggetto che di fatto non esiste come tale.
L’industria del software ha sempre sfuggito tale responsabilità (vedasi i vari standard disclaimers e l’argomento del “tech exceptionalism”).
All’aumentare degli effetti sul mondo, chi progetta e vende queste tecnologie non può esimersi dal considerarsi in una ragionevole misura responsabile dei possibili impieghi di ciò che costruisce.
Il che naturalmente porta anche a riflettere su cosa i vari attori di una determinata industria fanno collettivamente al resto della società. Mentre nel caso della mobilità ciò mi pare avvenga, nel caso delle ICT fatichiamo ancora a rendercene conto, nonostante le molteplici evidenze.
2) La reificazione (macchinizzazione) dell’umano
Parliamo di dati, di dati personali, di trattamento, ma perdiamo di vista che stiamo parlando, in primo luogo ed in ultima istanza, sempre di persone.
Dimentichiamo anche che gli attori che automatizzano la produzione linguistica sono gli stessi che compongono l’ecosistema dell’industria della sorveglianza, che usano l’esperienza umana come materia prima (S.Zuboff) per mettere sul mercato prodotti e servizi atti a condizionare altro comportamento umano, dalla pubblicità ai voti, secondo dun modello brutalmente skinneriano.
E’ logico aspettarsi che questi attori impieghino l’automazione della lingua per monetizzare analogamente gli stessi dati e la lingua stessa, vendendo ai propri clienti i comportamenti basati su determinati usi della lingua, basandoli sulla conoscenza estratta da testi messi a disposizione da altri utenti inconsapevoli di questi nuovi impieghi, che non hanno mai espressamente consentito all’uso della propria competenza linguistica a tali scopi.
Questo business model basato sulla appropriazione dei contenuti messi online dagli utenti è contrastato solo dalle leggi sulla privacy (e il copyright?) che in buona parte si applicano a contesti in cui dati personali vengono condivisi per scopi specifici che non includono il training dei modelli statistici. Ancora una volta il far west? Le colonie?
Ciò che va contestato è il diritto di appropriazione auto-attribuitosi da tali imprese all’uso dell’esperienza umana come se si trattasse di dati meteorologici o contabili, e l’uso del comportamento umano come mezzo.
Le imprese di cui parliamo (come molte altre, del resto) vendono comportamenti umani, sfruttano i lavoratori, inibiscono la sindacalizzazione, non pagano le tasse, fuggono dalle loro responsabilità, mirano al monopolio, si inchinano a regimi autoritari e manipolano o mentono a quelli democratici, e tutto questo non incidentalmente, ma seguendo una presa di posizione ideologica in molti casi coordinata. Queste accuse sono coerenti con i comportamenti di analoghe imprese in altri ambiti industriali (fossile, tabacco).
Se si trattasse di persone, non esiteremmo a considerarle sociopatiche.
Dare loro il potere di influenzare la lingua, che è ciò che regge letteralmente la società, non può che dar loro un altra enorme fetta di potere. E’ ciò che vogliamo?
Esempio grossolano: se un nostro governo richiedesse (anche pagando) la produzione algoritmica di testi che favorisca il “voi” al posto del “lei” non violerebbe né la legge né la grammatica, né il GDPR, ma i testi generati automaticamente cambierebbero progressivamente anche la lingua parlata.
A queste imprese, e a chi lavora per loro direttamente o indirettamente, va detto: “Fermiamoci! Riflettiamo!”.
Dato che l’ambiente in cui operano è la lingua, e che la lingua è quanto di più umano ci sia, qual è la valutazione di impatto di un GPT*? Qual è il principio di precauzionalità usato?
Queste due criticità diventano due fallacie del ragionamento, per cui da una parte demonizziamo le tecnologie invece di concentrarci sulla responsabilità delle imprese, dall’altra ammettiamo che quelli umani siano dati come gli altri e che l’esperienza umana e la società possa continuare ad essere una miniera da sfruttare industrialmente. Così accettiamo l’eccezionalismo IT e ammettiamo l’uso dell’umano come mezzo.
L’industrializzazione del linguaggio, come ogni altro processo industriale non regolato, non può che degradare l’ambiente che tocca.
Il modello culturale su cui si basa l’attuale ‘progresso’ è quello sul quale si sono basati molti dei progressi industriali precedenti: senza negarne i benefici, dobbiamo riconoscere che hanno comportato la svalutazione e lo sfruttamento della persona umana e la fuga dalle responsabilità.
Per una volta, cerchiamo di evitare il percorso passato e non aspettiamo i danni ambientali e umani per regolare. Fermiamoci e facciamolo subito.
Non invochiamo la scienza e il progresso per giustificare avidità di denaro e potere, come è avvenuto con imperialismo, colonialismo, schiavismo.
Il progresso vero è assumersi la responsabilità, non ‘move fast and break things’.
La vasta polemica attorno agli LLM, che segue quella di Cambridge Analytica, quella sul riconoscimento facciale e molte altre riuscirà finalmente a rendere chi produce software responsabile in qualche misura di ciò che fa e rispettare le persone?
Forse no, dovremo attendere un altro passo, mi azzardo a prevedere che forse sarà l’applicazione degli LLM alla produzione di oggetti, di cui anticipo un episodio:
]]>GPT9000: Cosa posso fare per te?
Io: Vorrei costruire una automobile a tre posti e sei ruote di cui due anteriori e quattro motrici, con motore elettrico e pannelli solari.
GPT9000: Certo ci sono molti progetti di automobili sui quali ho elaborato quello che cerchi. Avrai bisogno di una stampante 3d e di alcuni componenti che puoi trovare online. Troverai l’elenco dei negozi in cui comprare il tutto in area download, assieme al progetto e ai brevetti consultati: non dimenticarti di pagare le fees e di far omologare il veicolo nel tuo paese.
IO: Wow, grazie. Avrei anche bisogno di una macchina per far scodinzolare i cani.
GPT9000: Ho trovato solo un progetto in un vecchio libro francese ma dovrebbe andare bene. In compenso non ci sono fees per i brevetti da pagare.
IO: Grazie. Avrei anche bisogno di una macchina del tempo.
GPT9000: Sono spiacente, non ho progetti affidabili per una macchina del tempo, ma se ti interessa posso fornirti i progetti per una macchina per la criogenia, che alcuni considerano un efficace mezzo per viaggiare nel futuro. Devo metterti però in guardia: non è stata testata estesamente per questo scopo e non si può tornare al presente.
IO: Fantastico! La voglio. Servono permessi?
GPT9000: Dalle informazioni in mio possesso nel tuo paese la criogenesi non è regolata espressamente.
IO: Benone! Cosa può andare storto?
GPT9000: Mi spiace, solo solo un agente software, non posso fare previsioni su cosa può accadere se usi una macchina per la criogenia non testata per viaggiare nel futuro. Buona fortuna!
…
Benché la locuzione sia ben consolidata nella mistica, nella religione e nella cultura ebraica, il concetto rappresentato non è sempre lo stesso: alla base sta la constatazione che il mondo non è perfetto e richiede all’uomo di agire correttamente per renderlo migliore.
Il concetto mistico (cabalistico) è elaborato da Luria ed è impossibile qui renderne la complessità, di difficile comprensione: possiamo riportare quanto ne dice G.Sholem. Il Tikkun è il processo col quale Dio stesso si ritrae dal mondo per crearlo, ma anche quello che compie la personalità in divenire dell’uomo.
The development of man through the stages of conception, pregnancy, birth and childhood, to the point where the developed personality makes full use of its intellectual and moral powers, this whole process appears as a bold symbol of the Tikkun in which God evolves His own personality. […] The process in which God conceives, brings forth and develops Himself does not reach its final conclusion in God. Certain parts of the process of restitution are allotted to man. Not all the lights which are held in captivity by the powers of darkness are set free by their own efforts; it is man who adds the final touch to the divine countenance; it is he who completes the enthronement of God, the King and the mystical Creator of all things, in His own Kingdom of Heaven; it is he who perfects the Maker of all things! In certain spheres of being, divine and human existence are intertwined. The intrinsic, extramundane process of Tikkun) synbolically described as the birth of God’s personality, corresponds to the process of mundane history. [2]
Nella visione mistica della cabala di Luria, dunque, uomo e Dio si complementano nell’azione di tikkun olam, e oltre a definirsi, collaborano nella costruzione del mondo.
Nella religione ebraica, il termine è usato per definire le azioni che riparano ai danni del male che si è introdotto nel mondo: si va quindi dalle semplici azioni quotidiane, atti individuali di tikkun che ricuciono i piccoli strappi; è tikkun anche il riparare se stessi; è un concetto religioso di responsabilità sociale e giuridica nella giusta conduzione della società [3], la necessità individuale di riparare ai torti commessi o uno spirito di servizio; infine il termine viene usato riferendosi alla necessità di affrontare la più estrema manifestazione del male: la resistenza alla Shoah e il rendere impossibile il suo ripetersi [4]. Va anche registrato che non sempre vi è concordia nell’uso del termine, considerato da alcuni come applicato in modo troppo estensivo.
Un vasto spettro di possibili azioni che rispondono a una comune postura, quella della responsabilità individuale e sociale nei confronti dell’ambiente in cui l’azione umana può esercitare un effetto, per renderlo migliore.
In sintesi mi pare sia una dottrina che orienta il fare nel/sul mondo per renderli migliori, più integri. O meglio l’agire sui mondi: mondo interiore, sociale, politico, il cosmo come unità spirituale. Azioni, beninteso, connesse, in quanto “Cosmic and social tikkun is, in effect, set into motion through personal tikkun” [5]. Questi mondi non sono integri, sono corrotti o incompleti, e vanno emendati tramite l’azione umana. Proprio dell’uomo è avere un ruolo attivo e consapevole in in mondo complesso.
Questa dottrina avvicina l’uomo e la divinità nella capacità di agire. Da una parte l’uomo: pur non essendo creatore ha la competenza e il potere di riparare il mondo. Dall’altra il creatore del mondo che in qualche misura limita la sua azione o se ne astiene: possiamo spingerci fino ad immaginare una creazione lanciata nell’esistenza ma non attivamente guidata: vascello senza nocchiero, in preda all’entropia, e l’uomo che si affaccenda per non affondare con, e in, esso.
Un filo di pensiero, che non posso qui seguire, porterebbe al rapporto della dottrina di tikkun olam con il pensiero filosofico occidentale e quello di matrice cristiana che ha portato all’illuminismo e al ruolo dell’uomo in un mondo lasciato libero nell’azione da una divinità storicamente negata.
Un secondo filo, ambientale, porterebbe alle domande su quale sia il mondo riparato dall’uomo: il proprio ambiente è diverso da quello di altre specie. Questo aprirebbe alla riflessione su quale sia l’ambiente dell’uomo e quale la sua responsabilità nei confronti di chi. Inoltre, qual è il criterio per l’azione? Agendo solo in base alla propria capacità di previsione e mancando dell’onniscienza divina, come può sapere di agire per renderlo migliore e non di peggiorarlo? Anche questo filo non può essere seguito qui.
Quello che qui mi interessa sono due sfumature di dettaglio molto distanti dai grandi temi e forse irrilevanti: il rapporto con un certo concetto di hacker come di colui che agisce eticamente per “rendere migliore il mondo” (“make the world a better place” di R. Stallman) attraverso la propria competenza tecnologica; e quello dell’artista, la cui azione cattura, elabora e restituisce una porzione di sofferenza e la rende, spesso inconsapevolmente, in un’opera che risponde ad una estetica. Beninteso non tutti gli artisti soffrono e non tutti gli hacker agiscono per il bene.
Nella descrizione cabalistica della creazione vi è una rappresentazione della dinamica dell’atto creativo:
In its interpretation of Creation, the Zohar describes “a spark of impenetrable darkness” […] flashing within Ein-sof; Scholem (1995) terms this the “crisis” that turns Ein-sof from repose to creation. What spurred this crisis? According to the Zohar, it was the ripple of desire for expression and manifestation within the hidden recesses of the Infinite that caused Ein-sof to withdraw into Himself so that a finite world could be created. (Starr p.71)
Il ritrarsi in se (tzimtzum) crea un vuoto che dà luogo a una cascata di complessi eventi tra i quali la creazione del mondo e l’inizio del processo di tikkun, che in parte, come abbiamo visto, non è più responsabilità del creatore. L’iniziativa creativa nasce da rottura di un equilibrio interno che alla fine si manifesta come irruzione nel mondo, come messa al mondo dell’opera. Ma con questa manifestazione avviene una rottura dell’unità tra creatore e opera, per cui anche lo spettatore o il testimone dell’opera è coinvolto nella riconciliazione tra opera e creatore. Una parte dell’opera non sta nel creatore, ma in chi ne viene investito. L’opera esce : è importante, perché sia tale, che vi sia ostensione dell’opera.
L’artista, o l’hacker, che grazie alla sua competenza (“arte”) agisce sul mondo, dà una forma alle forze interne che fino a quel momento non erano manifeste, ma la sua opera investe gli altri, testimoni, utenti, spettatori: in questo essi non sono mai solo passivi, da una parte perché risuonano dell’impatto dell’opera nella loro esistenza, dall’altra perché contribuiscono, con la loro risposta e nell’interazione con l’opera, all’identità dell’artista o creatore. Da una parte la loro restituzione sull’opera ricompone, riconcilia, ripara la frattura tra il creatore ed essa, ma anche si innescano continue fratture in altri che diventano a loro volta creatori: una reazione a catena per cui l’attività creativa non è mai individuale.
Cosa ricaviamo da questa riflessione? Forze interne spingono ad agire nel mondo, espongono parte di noi fuori dal nostro controllo, alla mercé di quello che c’è fuori. Questo comporta la necessità di una riconciliazione, di una ricomposizione con ciò che è rimasto fuori, e ciò può avvenire attraverso la restituzione in termini etici (l’opera è buona) ed estetici (l’opera è bella). Questa restituzione non può avvenire che attraverso altre opere di altri, che così le riconducono (o meno) all’unità. Una infinita catena di azioni generano il mondo così come lo conosciamo, e conosciamo il mondo solo attraverso le fratture interiori che l’agire sul mondo, nostro e altrui, innesca.
1 Luca De Angelis La correzione della giornata. Note ebraiche a Italo Svevo , in Benussi, “Storie di Ebrei fra gli Asburgo e l’Italia” Gaspari, Udine, 2003
2 G.Sholem, Major Trends in Jewish Mysticism , 1941
3 Gerald J. Blidstein, Tikkun Olam, Tradition: A Journal of Orthodox Jewish Thought, Vol. 29, No. 2 (Winter 1995), pp. 5-43
4 E. Fackenheim, To Mend the World; Foundations of Future Jewish Thought. New York, N.Y. Schocken Books, 1982.
5 Karen E. Starr, Repair of the Soul. Metaphors of Transformation in Jewish Mysticism and Psychoanalysis , Routledge, 2008
]]>Nel libro “ The Age of Surveillance Capitalism Shoshanna Zuboff sono presenti due tipi di uccelli: i piccioni e i canarini.
I piccioni (ma anche scimmie e bambini) sono quelli di Skinner, animali sempre affamati e rinchiusi in gabbiette munite di dispositivi che gli permettevano di controllare l’erogazione di cibo e compiere gli esperimenti sui quali si è fondato il comportamentismo psicologico, la teoria che spiega il comportamento umano ed animale in termini di stimoli fisici, risposte, apprendimenti. Le gabbiette permettevano di condizionare il piccione in modo che tramite programmi di rinforzo (schedules of reinforcement, Operant conditioning) si fissassero comportamenti in risposta all’erogazione di cibo e segnali di altro genere. Ad esempio se il piccione affamato vede il cartello “TURN” e riceve del cibo dopo essersi girato (ma non ogni volta — rinforzo intermittente) si ottiene il condizionamento più efficace per far girare il piccione (dando poi l’impressione che sappia leggere).
Il programma di ricerca di Skinner (ma anche quello dei suoi predecessori (Pavlov, Thorndike, Watson) era apertamente mirato a condizionare il comportamento umano. Per Skinner, il condizionamento è una necessità politica e sociale: “The intentional design of a culture and the control of human behavior it implies are essential if the human species is to continue to develop”. (Beyond freedom p.176).
I lavori di Skinner (Cognition, Creativity and Behavior – The Columban Simulations) nati sugli animali si applicano a spiegare il comportamento umano: ad esempio i ludopatici davanti alle slot machines si comportano come i suoi piccioni affamati chiusi in scatola e nutriti da macchine. Da ciò Skinner conclude che non esiste libero arbitrio. Al dilà delle considerazioni filosofiche sulla libertà, sarei portato più modestamente a concludere che fame, dipendenza, solitudine e il dover interagire unicamente con macchine rende umani e piccioni ugualmente prevedibili.
Oltre a spiegare il comportamento, il codice escogitato da Skinner consente di manipolarlo attraverso il controllo dell’ambiente. E’ come il “petit monde a signaux” il piccolo mondo di segnali della prigione panottica settecentesca di “Sorvegliare e Punire” descritta da Foucault, ma senza l’aspetto disciplinare. Per Foucault, “Du mâitre de discipline à celui qui lui est soumis, le rapport est de signalisation: il s’agit non de comprendre l’injonction, mais de percevoir de signal, d’y réagir aussitôt, selon un code plus ou moins artificiel établi a l’avance. Placer le corps dans un petit monde de signaux à chaqun desquels est attachee una réponse obligée” . Citando l’architetto di prigioni Lucas: “nella pietra sta l’intelligenza della disciplina”. Prigione foucaultiana e gabbia skinneriana hanno in comune il condizionamento del comportamento attraverso l’architettura dei segnali incorporati nell’ambiente: nei due casi, si basano su una semiotica del controllo.
La Zuboff denuncia il modo in cui queste ricerche sono passate dall’analisi del comportamento all’ingegneria industriale del comportamento nel milieu digitale, e riporta un frammento di intervista con un ingegnere capo di una compagnia “molto ammirata” della Silicon Valley, che riferisce: «The goal of everything we do is to change people’s actual behavior at scale. […] When people use our app, we can capture their behaviors and identify good and bad [ones]. Then we develop “treatments” or “data pellets” that select good behaviors. We can test how actionable our cues are for them and how profitable certain behaviors are for us.» (Zuboff 2019, p.280).
Nel capitalismo della sorveglianza, la gabbia non è più un luogo fisico nel quale il soggetto è confinato in modo da potergli somministrare i segnali che servono per condizionare il suo comportamento. La gabbia (o la prigione) non servono, perché è il soggetto stesso ad auto-somministrarsi i segnali, in questo caso con una app. Lo scopo non è più quello di condizionare il piccione per guidare una bomba sul bersaglio, ma è quello di erogare “dati azionabili” che selezionano comportamenti che alla fine generano profitto. E farlo “in scala”, cioè non su singolo individui, ma su gruppi di persone definiti proprio dalla loro propensione a rispondere a certe classi di stimoli.
Possiamo solo immaginare il grado di controllo che possono esercitare i segnali erogati in ambienti chiusi come quelli della realtà virtuale, in cui tutto il sensorium è generato dalla macchina che deve soddisfare la nostra vasta fame di stimoli.
Il secondo tipo di uccelli sono i canarini. In particolare quelli che i minatori usavano portare in miniera: erano i primi a svenire in presenza di gas tossici: se il canarino non canta o sviene, vuol dire che tra poco sverranno e moriranno anche gli esseri umani. Non sappiamo quante vite umane abbiano salvato i canarini, ma la gratitudine dei minatori per questi piccoli uccelli deve essere grande. La Zuboff ci dice: nel nostro mondo i canarini nella miniera sono i bambini, i giovani e gli artisti. Sono quelli che segnalano con la loro sofferenza quando le cose non vanno bene, e che le raccontano con le loro emozioni: “narrating the mental and emotional milieu of life in an instrumentarian society with its architectures of behavioral control, social pressure, and asymmetrical power” (p. 417).
Anche se non approfondisce molto questo aspetto e si limita a lanciare questo paragone e qualche esempio di artisti che denunciano la società della sorveglianza digitale, la metafora ispira e merita di essere approfondita.
L’arte può essere consolatoria e tranquillizzante o provocatoria e disturbante. Quella dell’artista-canarino tende ad essere del secondo tipo. Ad esempio le opere di diversi artisti (come Bansky, Geltner, Wagenknecht) con una sovrabbondanza di telecamere puntate su soggetti innocenti, o lo spione di Bansky che ascolta le conversazioni della cabina telefonica pubblica esaltano la sproprozione tipica della distopia tecnologica tra i mezzi dell’architettura della sorveglianza e la banalità dei gesti quotidiani che minaccia.
Le foto di Igor Tveltkov (“your face is big data”) che riprendono la stessa persona, prima in un contesto anonimo pubblico e poi reidentificate nei social con i motori di riconoscimento facciale di aprono al perturbante, alla perdita della sicurezza data dalla violazione delle regole appropriate ad ogni contesto.
Simon Weckert carica 99 smartphone in un carretto che porta a mano in strade prive di traffico a Berlino. Sono deserte perché gli automobilisti seguono Google maps ed evitano l’ingorgo che Google crede di vedere da quell’ammasso che procede a passo d’uomo. Performance artistica geniale che sconfina nello hack, nella manipolazione che smaschera il manipolatore.
Questi progetti artistici servono forse a chi li crea a sentirsi almeno parzialmente vendicato di un disagio o di una ingiustizia (almeno, credo che io mi sentirei così), a ma al resto dei minatori nella miniera servono a rendere manifesta la mancanza di innocenza di quelli che abbiamo pensato essere “solo strumenti” privi di intenzioni politiche, spogli di ideologie e al contrario portatori di “soluzioni”. Come per quasi tutte le soluzioni industriali, solo a distanza di anni ci si è accorti del loro impatto. Incluse quelle nucleari: si veda la retorica del benevolent atom negli anni ’50, invocato come sostituto della dinamite in qualsiasi cantiere e chiamato a rimpiazzare il petrolio in ogni motore.
Le fotografie di Antoine Geiger in cui i volti delle persone si fondono con gli schermi dei cellulari denunciano la deformazione antropologica di cui siamo ormai vittime: i volti e lo sguardo sono scomparsi dal mondo, sono catturati da una macchina che sembra succhiare l’anima.
L’artista-canarino soffre, patisce come individuo quello che gli altri patiscono, ma traduce il suo disagio in segnali che interferiscono con quelli del mondo-a-segnali progettato per condizionare il comportamento, e introduce esattamente quello manca: la consapevolezza dell’esistenza di un ambiente-macchina che risponde ad una intenzione di controllo.
Molti di questi artisti sembrano proporre una contro-semiosi, o una semiotica alternativa a quella del controllo: mentre la tecnologia cerca sempre di sprofondare nell’ambiente, di nascondersi nella tappezzeria, di scomparire, queste opere fanno l’opposto: evidenziano, enfatizzano, esagerano, strappano la tappezzeria e mostrano il meccanismo che vi è nascosto.
I canarini ci liberano dalla miniera? No. Ma se teniamo gli occhi aperti, guardando il canarino possiamo capire che è giunto il momento di venirne fuori.
]]>Questo passaggio mi ha colpito:
We do expect these companies to affirm the importance of our democratic institutions, not dismiss them, and to work to find the right combination of regulation and industry standards that will make democracy stronger. And because companies recognize the often dangerous relationship between social media, nationalism, domestic hate groups, they do need to engage with vulnerable populations about how to put better safeguards in place to protect minority populations, ethnic populations, religious minorities, wherever they operate. So for example, in the United States, they should be working with, not always contrary to, those groups that are trying to prevent voter suppression and specifically has targeted black and brown communities. In other words, these companies need to have some other North Star other than just making money and increasing market share. Fix the problem that, in part, they helped create, but also to stand for something bigger.
Per quanto condivisibile, mi sorprende l’ingenuità di questa affermazione, in particolare che le più grosse società per azioni sul mercato cerchino una “stella polare” diversa dal “fare solo soldi”. Posizione condivisibile ma irrealistica quanto quella di sperare che sia Batman a risolver il problema dello strapotere di /big tech/.
Un altro presidente —Eisenhower— negli ultimi giorni del suo mandato (1961)1 in un celebre discorso mise in guardia il suo Paese contro il nuovo potere insorgente all’epoca, quello tecnologico-militare-industriale.
In modo molto più lucido di Obama puntava i dito sugli stessi fattori di rischio — il “disastroso aumento di potere mal riposto” e di “influenza non autorizzata” — e sui rischi derivanti per “la libertà e i processi democratici”, collegandoli direttamente al “potere del denaro”
[…] This conjunction of an immense military establishment and a large arms industry is new in the American experience. The total influence — economic, political, even spiritual — is felt in every city, every State house, every office of the Federal government. We recognize the imperative need for this development. Yet we must not fail to comprehend its grave implications. Our toil, resources and livelihood are all involved; so is the very structure of our society. […] The prospect of domination of the nation’s scholars by Federal employment, project allocations, and the power of money is ever present and is gravely to be regarded. Yet, in holding scientific research and discovery in respect, as we should, we must also be alert to the equal and opposite danger that public policy could itself become the captive of a scientific technological elite.
Obama invece distoglie la sua attenzione dalle compagnie e la dirige sugli individui: invita gli studenti di Stanford a “votare coi piedi” per spingere le compagnie a “fare la cosa giusta” e i cittadini ad essere “migliori consumatori di notizie”, ma non menziona l’enorme problema della concentrazione di potere e denaro che impedisce esattamente di fare queste cose: quella influenza totale, economica, politica e perfino spirituale di cui invece parla Eisenhower.
Esattamente la stessa postura ipocrita che carica consumatori e cittadini di responsabilità per la crisi ambientale, declinando minuziosamente i loro comportamenti più o meno ecologici o quelli che mettono a rischio la propria salute, mentre scagiona (per omissione) le macroscopiche responsabilità dei principali attori industriali, ai quali ci si può limitare di raccomandare di “guardare oltre al denaro”.
Ciao,
Alberto
1 Public Papers of the Presidents, Dwight D. Eisenhower, 1960, p. 1035- 1040
]]>Non fare nulla che non farebbe il tuo gatto: lascia che il cane abbai dietro allo steccato; se hai messo in salvo la coda non serve combattere e puoi stare a guardarlo mentre si scalmana.
Non fare nulla che non farebbe il tuo gatto: se la giornata o la notte è bella nulla ti trattiene al chiuso, ma in caso contrario cerca piuttosto un cuscino comodo: non vale la pena sottrarre ai sogni lunghissime ore. Alla disperata cambia cuscino.
Non fare nulla che non farebbe il tuo gatto: mangia quanto basta a saziarti, e nulla che non sia buono. Affamato forse, ma non intossicato.
Non fare nulla che non farebbe il tuo gatto: ama chi ti ama, fuggi chi ti minaccia. Difenditi se serve.
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