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Gli aeroporti, i campi, e la libertà. · 2009-08-19 by mmzz


L’aeroporto, come tutti i porti, è punto di confine, di rottura della routine (salvo per i pendolari), una accumulazione di viaggi. Le partenze, in particolare, sono lo spazio in cui un adesso/qui necessariamente farà spazio a un dopo/altrove. Prospetta potenzialità, novità, inizio di qualcosa, rischio, anche oltre al volo in sé.
Annah Arendt dice che c‘è una contiguità concettuale e semantica tra “libertà” e “inizio”. Tra iniziare qualcosa ed essere liberi.
La libertà come inizio è diversa dal libero arbitrio, dice la Arendt, e si rifà a una tradizione concettuale e categoriale antica, per cui il greco archein significa cominciare e governare, dunque essere liberi e il latino agere significa avviare qualcosa, dunque scatenare un processo.
Voglio aggiungere che questa libertà di iniziare si articola non solo in un potere individuale, una capacità soggettiva, una abilità personale; ma anche un fatto sociale, collettivo, abilitante. Non è solo un potere-posse, ma anche un potere-licet, un iniziare qualcosa che la collettività in cui sono inserito mi consente, se non incoraggia.
L’aeroporto perciò, e specialmente le partenze, sono luoghi emblematici di un inizio, sia esso un andare via che un ritornare (che è anche un ri-inizio). E anche il volo da sempre è sogno e segno di libertà suprema, scioglimento del vincolo che ci inchioda alle due dimensioni della superficie. Oltre ad essere dei non luoghi, gli aeroporti sono delle concentrazioni di inizi e i voli aerei carichi di libertà.

Ma se sono libero di iniziare un viaggio, e perfino di lasciare il paese, da un aeroporto, non è solo per il complesso di mezzi tecnici e organizzativi che mi consentono di salire su un aereo che si staccherà da terra, ma perché posso farlo legalmente e nessuno me lo impedisce. E qui, nei meccanismi e nei dispositivi in cui si rivelano i limiti di questa libertà, si rivela il potere di chi ne dispone.
I limiti sono conosciuti: posso volare solo se possiedo documenti identificativi ed autorizzativi, dopo identificazione anagrafica, perquisizione, assoggettamento a limiti severi su ciò che posso portare con me. Il viaggio deve essere, se supera un confine di Stato, implicitamente o esplicitamente autorizzato.

Ma a questo punto occorre fare un passo indietro, all’11 settembre 2001 e all’evento delle torri gemelle. Evento a partire dal quale molti di questi vincoli sono iniziati o si sono inaspriti, proprio perché il simbolo emblematico della libertà di movimento era stato usato come proiettile e scagliato contro un altro simbolo, quello della libertà di commercio globale che costituisce la forza della prima (all’epoca, unica) superpotenza: il world trade center. L’audacia e l’efficacia del gesto criminale fu non solo quella organizzativa, ma anche simbolica: il semplice fatto che un attentato del genere potesse essere concepito, colpendo sul proprio suolo (altro emblema, quello della sovranità) una nazione che mai aveva subito un tale insulto.

A questo triplo attentato, assai non convenzionale, la risposta è stata altrettanto non convenzionale. Non solo per l’attacco militare all’Afghanistan (in sé piuttosto convenzionale), ma piuttosto per l’instaurazione di alcune istituzioni da subito criticate, ma solo recentemente messe in discussione: l’istituzione, fuori dalla giurisdizione statunitense e fuori dal diritto internazionale, di un campo di detenzione a Guantanamo, del concetto di enemy combatant , della pratica della extraordinary rendition (le catture illegali e i viaggi —aerei— in luoghi in cui anche la tortura è legale), di attività di sorveglianza elettronica senza autorizzazione ed infine per l’ammissione che il governo statunitense avrebbe potuto mentire per motivi di sicurezza.
Giorgio Agamben, 6 anni prima, aveva descritto questa coesistenza di legge e anomia in “Homo Sacer”, rifacendosi alla dottrina dello stato di eccezione di Schmitt, stato in cui la norma si applica all’eccezione disapplicandosi, ritirandosi da essa, per cui il sovrano decide sulla strutturazione normale dei rapporti di vita, e per cui la legge vige ma non significa. Lo stato di eccezione espone la nuda vita di chi vi è soggetto, in quanto di tutto il resto è stata spogliata e null’altro che questa è in discussione, in quanto nemmeno la vita in sé è protetta e si trova sospesa in una condizione di assenza di garanzie per cui l’imperium del magistrato non è che la “vitae neciscque potestas” del padre estesa a tutti i cittadini. Per Agamben è il campo, quello di concentramento, poi quello di sterminio in cui “vige” lo stato di eccezione, la sigla della modernità. Il luogo in cui si nasconde l’esposizione della nuda vita, spogliata di tutto il diritto, alla volontà del sovrano. Possiamo osservare come la passione che anche l’Italia sta sviluppando per questi “luoghi protetti di monotonia disciplinare” (Foucault) testimonia quanto la modernità stenti a concludersi e trascini con sé i suoi meccanismi.

Un secondo passo indietro. Nel 1975 Foucault scrive “Surveiller et punir” sulla nascita delle pratiche penali e punitive che accompagnano la nascita dello stato moderno. Stato, per Foucault, disciplinare. L’autore spiega come coesistano nel XVIII secolo tre fenomeni punitivi. Quello tradizionale, in cui il sovrano, attraverso il supplizio —pubblico ed efferato— marchia il condannato con il furore della sua vendetta, con un cerimoniale nel quale riafferma la sovranità lesa dal crimine. Poi quello dei giuristi riformatori, che volevano instaurare una pena pubblica che fosse rappresentazione altamente significativa, che mirasse sia alla riqualificazione del criminale che l’educazione delle masse, attraverso pene che fossero un “insieme codificato di rappresentazioni”. Ed infine quello delle istituzioni carcerarie, in cui un meccanismo amministrativo applica una disciplina al corpo del carcerato, oggetto di coercizione, reso “corpo docile”. Quest’ultimo filone di pena (quella che godrà poi del maggior impiego) si inserisce in una pratica di grande successo nel corso del XVIII secolo, quella della meccanizzazione e del corpo umano, sia in quanto oggetto di leggi descrittive (anatomico-scientifiche) che prescrittive, come oggetto di potere attraverso l’imposizione della -disciplina_. Questa ripartisce gli uomini in ranghi e classi in uno spazio codificato e cellularizzato, ne codifica le attività, ne cumula le forze.

Quale collegamento tra le due riflessioni? In primo luogo, in merito all’ 11 settembre, la riaffermazione della sovranità lesa dall’attacco terroristico non poteva limitarsi alla punizione —fuori dai confini— di un colpevole. Occorreva, —oltre qualsiasi confine— attraverso la formulazione di un campo di anomia centrato in Guantanamo ma estendibile in ogni parte del globo (grazie agli aerei), riaffermare la sovranità stessa con l’unico atto veramente sovrano secondo Schmitt: la sospensione di ogni legge. Ma come condurre la pena? Non con l’efferata vendetta di un pubblico supplizio il cui scopo è suscitare terrore e nemmeno con l’intento di recuperare o ricondizionare il nemico, ma con l’instaurazione di una rigorosa disciplina, di una codificazione della sospensione della legge attraverso i regolamenti. La vita di Camp Delta è regolata da un manuale di 238 pagine (pubblicato da wikileaks.org) che sotto il nome di “procedure operative standard” meticolosamente codifica tutta la vita del prigioniero, dal suo arrivo al behavior management mirato a renderlo dipendente da chi lo interroga.

Ma la disciplina non si ferma a Guantanamo. La tecnologia di potere che consiste nell’imposizione di una disciplina, di una routine meccanica ad un corpo, è stata estesa, per tutelare la sicurezza del volo, anche fuori dallo spazio di anomia ed è entrata anche nella vita normata e tutelata dal diritto dei cittadini. Ciò è visibile più che mai proprio negli spazi di frontiera che sono gli aeroporti in cui la tutela si indebolisce ed aumenta la densità del potere statale, e —emblematicamente— alla libertà del volo si affianca la pesante disciplina imposta ai corpi che vogliono volare. Le pratiche di sicurezza rigorosamente codificate sono procedure operative standard a cui qualsiasi cittadino come corpo deve assoggettarsi. Procedure che appunto erano quelle una volta esclusivamente destinate ai criminali, e che oggi sembrano ricordarci che lo Stato, prima di lasciarci iniziare il nostro libero volo, detiene la sovranità, la potestas. Ecco allora che —in fila— svuotiamo le tasche, ci togliamo scarpe e cintura, siamo perquisiti. Macchine sono capaci di frugare nel nostro bagaglio e controllano il nostro corpo, con l’ausilio della nuova tecnologia X-ray backscatter possiamo essere spogliati nudi agli occhi di una persona per noi invisibile. A seconda della nostra destinazione può accadere che le nostre impronte digitali ci accompagnano con il passaporto biometrico e siamo forse stati sottoposti a una qualche forma di esame in merito alle ragioni del nostro viaggio. Ci viene impedito di portare con noi dell’acqua da bere o altri liquidi (se non in misure prescritte) e altri oggetti. Ecco che il viaggio, l’emblema della libertà di iniziare della Arendt, viene tassato da una piccola pena, da un assaggio di colpa, da pratiche di domination venate di sfumature sessuali per alcuni imbarazzanti, per altri oltraggiose (si veda questa reazione: Looking You Over, With a Shameless Gaze. Sharkey, J., The New York Times 2009-04-14).

Confrontiamo questo scenario con quanto riferiva Sefan Zweig nella sua autobiografia Mondo di ieri – ricordi di un europeo: Prima del 1914 la terra apparteneva a tutti: ognuno andava dove voleva e vi rimaneva finché voleva. Non c’erano permessi né concessioni né lasciapassare. […] Si ignoravano i visti, i permits e tutte le seccature; gli stessi confini che oggi, per la patologica diffidenza di tutti contro tutti, sono trasformati in reticolati e a base di doganieri, poliziotti e gendarmi non significavano altro che linee simboliche, che si potevano passare con la spensieratezza del meridiano di Greenwich.
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