Industrializzazione delle relazioni personali, inquinamento relazionale ed ecologia comunicativa · 2015-11-05 by mmzz
Dicono che viviamo in un’era post-industriale. A me pare che al contrario siamo in un contesto iperindustriale, in cui ogni aspetto della vita —o quasi— è toccato da prodotti e processi industriali.
E’ forse finita (in occidente) la stagione del fordismo spinto, ma l’industrializzazione procede in ogni settore dell’economia: i trasporti, la salute (o “benessere”), l’intrattenimento, l’abitare, l’agricoltura, la produzione e riproduzione della cultura, la finanza, l’istruzione. Ciascuno di questi ambiti economici ha la sua industria, alimentata da una retorica ideologica del progresso.
Graze alle “nuove tecnologie” anche l’industria della comunicazione (e quindi del marketing), che precedentemente si era “limitata” alla comunicazione di massa, si estende alla comunicazione individuale, ed in questo modo invade la sfera delle relazioni interpersonali.
Come nel resto delle industrializzazioni, il processo raramente è sostenibile: non introduce solo le macchine, ma assieme ad esse il peggio delle dinamiche capitalistiche per massimizzare il profitto: l’inquinamento, l’alterazione di ecosistemi, la standardizzazione dei comportamenti, l’approfondirsi di diseguaglianze, il controllo sociale.
Consiste nell’automatizzazione, mediante tecnologie, dei processi relazionali: costruzione, mantenimento, alimentazione di un rapporto tra persone: amicizia, colleganza, rapporti clandestini… tutti hanno la loro “piattaforma” ad-hoc, che si occupa della trasmissione di messaggi amplificando —è vero— l’azione individuale (in portata e intensità), facilitando l’interazione tra gruppi, introducendosi come mediatore e riducendo costi e sforzi, ma anche standardizzando e formalizzando quelle che altrimenti sarebbe una diversificazione di sfumature (amico… non amico… conoscente… sconosciuto), banalizzando i comportamenti (mi piace, condividi, commenta), frammentando l’attenzione e la concentrazione, inducendo una potenziale “tunnel vision” e esponendo al rischio di diffusione eccessiva di dati personali (oversharing).
Questa nuova area di industrializzazione è preoccupante per il suo carattere intruisvo: appare neutrale come l’aria che media la nostra voce, ma in realtà nasconde un’intelligenza precisa, dietro alla quale si palesa la necessità di profitto, tipicamente ottenuto con la pubblicità “contestuale” e “mirata”, offerta ad un soggetto di cui la piattaforma ha costruito, monitorandolo incessantemente, un modello di comportamento che rappresenta il vero prodotto da vendere (sesso, età, gusti, attitudini, ecc) come bersaglio di pubblicità. Più il modello rende prevedibile il soggetto che vende ed è in grado di condizionarne i comportamenti (e indurlo a cliccare e comprare), più vale. La modellizzazione del soggetto fa si che la piattaforma è in grado di proporre sia prodotti da comprare che nuovi contatti, o “amicizie”, per allargare le nostre relazioni. Il tutto viene fatto secondo algoritmi completamente opachi ed oscuri a chi vi è soggetto.
Al pari dei processi industriali che hanno riguardato la siderurgia, la chimica, l’estrazione mineraria, l’agricoltrura, l’industria delle relazioni non ha alcun rispetto per l’ecosistema, l’ambiente nel quale le relazioni avvengono. Al contrario, più un processo è “disruptive” cioè dirompente, meglio è, secondo una vecchia ma sempre rinnovata ideologia della modernità e del progresso.
I “problemi di privacy” dei quali sentiamo parlare come se fossero spiacevoli effetti collaterali sono in realtà l’equivalente dell’inquinamento dei fiumi e dell’aria dell’industrializzazione selvaggia: una operazione necessaria per massimizzare profitti. Minimizzando l’inquinamento l’industria non rende.
E tutti noi, lavoratori e merce dell’industria delle relazioni, rischiamo di perdere non una mano sotto una pressa, ma dati personali che possono rovinarci la vita, o qualità e ricchezza di relazioni che fanno parte di un’esistenza equilibrata.
La trasformazione della persona in un prodotto e l’industrializzazione delle sue relazioni comporta l’inquinamento del contesto sociale in cui le relazioni avvengono. Alcuni esempi di inquinamento a vario livello possono essere i seguenti:
- a livello individuale, la situazione di persone “presenti ma assenti” perchè temporaneamente isolate in qualche mondo altro, una “eterotopia” foucaultiana, o meglio vi si alienano. Se mai avete avuto un vicino al cinema che chatta al suo telefonino sapete cosa voglio dire. Il contesto comunicativo del “mondo reale” nel quale sono immersi i sensi ha dei “buchi” nei quali qualcuno, o molti, o tutti, sono immersi, e che ci investe a sprazzi.
- inquinamento della fiducia, perchè il canale —che pensiamo gratis— deve generare profitti e quindi è pensato per veicolare, assieme al messaggio scambiato, pubblicita o contenuti mirati. Il canale, in sostanza, ha una lealtà limitata nei confronti di chi lo usa; limitata da una lealtà superiore a chi lo finanzia, cioè i principali suoi azionisti e i loro clienti. Avete mai avuto il sospetto che il messaggio email ricevuto dall’amico con un “condividi” abbia poi originato un flusso di spam, magari “a tema”?
- inquinamento politico, per la centralizzazione dei canali in poche, pochissime, mani (tutte risiedenti in una sola nazione) che offre un potere formidabile per “il governo meccanico degli uomini” (Wiener), da far impallidire quello della comunicazione di massa, specie se applicato alla comunicazione interpersonale.
L’inquinamento dei fiumi, delle acque, e l’esaurimento delle risorse naturali hanno avuto bisogno di tempo e molto sforzi da parte del movimento ecologista per ripristinare un minimo decente di ambiente sano, e solo in ecosistemi dove l’industrializzazione ha già fatto i suoi danni. Gli stessi problemi ambientali si ripetono nei paesi “in via di sviluppo”.
Allo stesso modo occorre un ecologia della comunicazione e della relazione per evitare che il contesto relazionale, sociale e politico venga inquinato dai sottoprodotti della industrializzazione delle relazioni, oggi in corso in questa parte del mondo.
Cancellare la rivoluzione digitale? No. Renderla sostenibile e farlo —per una volta— prima che sia faticosamente dimostrato che ha fatto danni irreparabili.