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Arte e denaro, il valore di una performance. · 2009-05-23 by mmzz

Paolo Fabbri ci ha parlato di una semiotica della moneta. Partendo da un testo di Rastier ha sottolineato come sia la transazione a attribuire il valore, più che una qualità propria dell’oggetto denaro. L’argomento è stato efficacemente sostenuto descrivendo l’attività dell’artista J.S.G Boggs, il quale afferma che “money is an abstraction, the transaction is real” e sostiene e dimostra questa affermazione con una performance artistica: paga disegnando banconote tanto perfette quanto alterate, palesemente finte, firmandole con il suo nome, convalidandole sul retro e dimostrando—quando vengono accettate in cambio di beni— che pur essendo false non sono disfunzionali e funzionano come banconote. Chiaramente Boggs ha un sacco di problemi con la legge e un buon successo come artista.

Una riflessione in merito a creazione, autorità, economia, scarto, valore.
Rovesciando l’affermazione di Boggs sul denaro sull’arte, si può dire che “art is an abstraction, the performance is real”. Questo getta un dubbio: cosa succede una volta terminata la performance? L’opera d’arte rimane tale anche dopo essere stata creata, o diventa altro, ad esempio oggetto di collezione, feticcio, investimento? Il fatto che la performance creativa si sia esaurita lascia qualcosa sull’oggetto, qualcosa che vi aderisce nella sua materialità oggettiva, ma che non è più la performance immateriale. Questo qualcosa non può garantire di per se che la performance creativa sia realmente accaduta, che quell’oggetto d’arte di sia manifestato come frutto di quella specifica performance, della quale qualcuno può testimoniare. Questo è tanto più vero dopo che anche l’opera d’arte è entrata “nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” (Benjamin). Si manifesta quindi l’esigenza di un testimone autorevole della performance, che garantisca che questa è avvenuta storicamente. Nel caso della banconota lo Stato testimonia autorevolmente sulla autenticità della stessa con il sostegno di durissime leggi. In realtà non fa altro che certificare la conformità di quella specifica copia (la banconota, con il suo numero di serie) all’originale di un’opera d’arte, priva di numero di serie, della cui performance creativa ormai si è persa memoria e interesse, e di cui con ogni probabilità è stato distrutto anche l’originale.

Boggs “giocando” con ironia denuncia la sostituzione della performance con il certificato, la garanzia; la banconota è solo un supporto per la performance (il disegno di Boggs) o del certificato (la banconota “vera”): il valore della performance che crea l’originale viene sostituito dal “valore facciale” apposto sul supporto senza valore di una copia tra milioni, che viene garantito come conforme all’originale. Ed è proprio questa autenticazione che consente la transazione, in base alla fiducia nell’autenticatore.
Ma autenticità e riproduzione non vanno d’accordo, secondo Walter Benjamin: L’autenticità di una cosa è la quintessenza di tutto ciò che, fin dall’origine di essa, può venir tramandato, dalla sua durata materiale alla sua virtù di testimonianza storica. Poiché quest’ultima è fondata sulla prima, nella riproduzione, in cui la prima è sottratta all’uomo, vacilla anche la seconda, la virtù di testimonianza della cosa. Certo, soltanto questa; ma ciò che così prende a vacillare è precisamente l’autorità della cosa. Ciò che vien meno è insomma quanto può essere riassunto con la nozione di “aura”; e si può dire: ciò che vien meno nell’epoca della riproducibilità tecnica è “l’aura” dell’opera d’arte. Il processo è sintomatico; il suo significato rimanda al di là dell’ambito artistico. L’aura, ciò che sopravvive alla performance creativa dopo che questa si è esaurita, ha dei problemi con la riproduzione, e viene persa con essa. La banconota emessa da un istituto di credito centrale, essendo una riproduzione massiva di un’opera creativa dell’artista/artigiano che l’ha disegnata un tempo, ne è completamente priva. Come abbiamo visto, il suo valore proviene dalla garanzia dell’istituto, dello Stato, dalla minaccia delle sanzioni. Al contrario la banconota di Boggs ne è carica, sotto forma di valori simbolici legati all’autore, alla sua performance, al significato di questa e alla sua connotazione politica, alla persistenza della performance, legata anche al rischio di infrazione delle leggi, che in qualche maniera ne legittima l’illegittimità e certifica anche la trasgressione, oltre alla ottusità e mancanza di umorismo delle istituzioni. Perciò viene “accettata”, cioè ad essa viene attribuito lo stesso potere di essere scambiata con un bene: è pregna di autenticità in quanto emblematicamente opposta alla replica seriale, che ne è priva. Al contrario di quanto accade con la banconota autentica, ciò che viene scambiato non è la garanzia di una remota performance che non interessa a nessuno, ma la viva testimonianza di aver assistito alla performance di Boggs.

Il fatto che la banconota di Boggs, così come una qualsiasi opera d’arte, sia accettata come tale (ma anche come banconota) è dovuta in primo luogo al fatto che Boggs “è un artista” e come tale è legittimato a produrre artisticamente e anche a trasgredire “per mestiere”. Ma vi è un altro motivo, (emerso nel corso del seminario) da collegarsi con la “lotta per il riconoscimento” di un oggetto che viene socializzato.
Fabbri ha evidenziato i tre livelli di valore del valore (valenza o meta-valore): (1) Dell’oggetto in rapporto ad altri oggetti (2) dalla sua relazione con un soggetto (3) dalla sua rilevanza intersoggettiva, nel momento in cui si pone tra due o più soggetti. L’oggetto opera d’arte, così come l’oggetto banconota, figuratamente “lotta” per un riconoscimento che emerge dalla sua interazione con soggetti ed oggetti: il fatto di essere prodotto da un artista non basta. Questa lotta può manifestarsi come una identificazione dell’oggetto da parte di un dato ambiente, l’attribuzione ad esso di un senso condiviso, un significato politico, una ideologia, una rilevanza costante in relazione ad un contesto, un insieme di credenze condivise ad esso legate. Al fine di chiarire questa lotta, la tripartizione proposta da Fabbri potrebbe essere messa in relazione con la tripartizione che A.Honneth (in La lotta per il riconoscimento) attribuisce al riconoscimento intersoggettivo, fondendo filosofia hegeliana e la psicologia di Mead (o forse cercando di fondare questa su quella). I tre stadi del riconoscimento intersoggettivo sono: emotivo — giuridico — etico. Trasponendo arditamente il framework di Honneth potremmo dire che l’oggetto artistico (così come la banconota) nasce per soddisfare una esigenza primaria (creativa: la performance o di scambio: l’autenticazione), poi si carica di rispetto di sé e ottiene un riconoscimento giuridico (la critica apprezza l’opera, le istituzioni riconoscono la banconota), infine questo rispetto viene generalizzato e diventa un fatto sociale scontato e “migra nel senso comune” diventando l’univers naturel qui va de soi (Barthes).

Cade a proposito quanto ho già scritto sui nudi d’oggetto. Questi sono ciò che Magritte dipinge, oggetti nudi, spogliati di ogni relazione consolidata, del rispetto di sé, del lessico e della semantica famigliare, della rete di riconoscimenti nella quale l’oggetto correttamente socializzato è stato creato ed inserito; Magritte dipinge cioè oggetti desocializzati. Per farlo, dopo averli denudati, li deve ricontestualizzare (ovvero rivestire), operazione analoga a quella di Duchamp con la “fountain” e naturalmente quella di Boggs con le sue banconote: togliere all’oggetto le connotazioni abituali e denudarlo, rivestendolo di nuovi ruoli una volta investito di una diversa rete di relazioni. Uno dei ruoli dell’arte, sembrerebbe, è questo: creare oggetti “autentici” perché testimoniano genuinamente una esperienza primaria (quella creativa) e simultaneamente “falsi” perché scollegati dalle loro relazioni sociali, dal loro comportamento adeguato ed abituale, ovvero “naturale”. Qui ci si potrebbe ricollegare alla tassonomia semplificata degli oggetti di Rastier: corpi naturali, oggetti culturali, e dechets scarti che nascono dalla trasformazione dei primi in secondi.
Sono in disaccordo su almeno due punti: il primo è che pensare al déchet principalmente come scarto di produzione (corpo trasformato in oggetto) e considerare marginale l’oggetto trasformato in déchet (che non è un corpo, in quanto non naturale) non consente di evidenziare un importante proprietà economica del rifiuto. L’oggetto deprivato di valor d’uso (obsoleto, rotto, fuori moda, inutile, imbarazzante, sbadito, …) viene scartato dalla collezione degli oggetti e trasformato in déchet. Questo processo consente la creazione economica di valore per gli oggetti dello stesso tipo superstiti (specie se prodotti in quantità — le copie). Il pezzo da collezione, la rarità, l’oggetto antico spesso è un dèchet sopravvissuto allo scarto. Come ogni archivista sa, lo scarto è operazione simmetrica alla creazione e richiede autorità per essere compiuta.
La seconda obiezione riguarda la presunta naturalità dei corpi. In qualsiasi ambito sociale io non credo che esista una “natura”, ovvero una natura che non sia frutto di una naturalizzazione, per cui ogni corpo, se conosciuto socialmente, viene necessariamente culturalizzato e trasformato in oggetto. Questo è anche il motivo per cui Magritte, Duchamp e Boggs non possono denudare completamente gli oggetti delle loro brame, ma sono condannati a rivestirli, se vogliono rappresentarli. Ogni possesso o percezione è culturale, ogni naturalità è una naturalizzazione, e non è possibile costituire un senso per l’oggetto fuori da un contesto e da una “relazione tra detto e non detto” (Bachtin-Volosinov). Per cui ogni trasgressione di un codice genera —una volta comunicato— un nuovo codice, che se accettato come valuta corrente diventa canone e —una volta naturalizzato— soffre degli stessi problemi di quello appena trasgredito. Perciò non resta che trasgredir tacendo e tacere trasgredendo.

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