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Migliore la sanità, maggiore la mortalità? · 2020-04-06 by mmzz

Questo articolo mette in rapporto la mortalità per COVID-19 con la qualità delle cure mediche disponibili a tutta la popolazione, misurate secondo lo HAQ Index
Lo HAQ-index misura una serie di variabili sanitarie in quasi 200 paesi per rilevare quanto cure mediche di qualità siano accessibili alla popolazione: sia qualità che accessibilità.

I risultati mettono in luce una associazione tra qualità e mortalità per COVID-19.

[…] the number of non-travel related COVID-19 cases seem to continuously increase in the HAQ-cohort of countries with higher medical standards. Further analyses demonstrate a significantly lower proportion of reported COVID-19 cases without travel history to China in countries with lower HAQ (HAQ I vs. HAQ II, posthoc p < 0.01). Our data indicate that countries with lower HAQ-index may either underreport COVID-19 cases or are unable to adequately detect them. Although our data may be incomplete and must be interpreted with caution, inconsistencies in reporting COVID-19 cases is a serious problem which might sabotage efforts to contain the virus.

L’articolo è stato pubblicato il 14 marzo e fa riferimento a dati fino al 18 febbraio e dunque parziali, ma questo grafico con dati aggiornati quotidianamente sembra confermare tendenzialmente l’associazione mortalità-HAQindex.

Migliori le cure mediche, maggiori i morti. Perchè?

I nessi causali possono essere più complessi di quelli esposti nell’articolo: non solo il fatto che non vengono rilevati o riferiti casi nei sistemi sanitari di minor qualità, ma anche che una sanità migliore porta a una popolazione vulnerabile maggiore (anziani o malati cronici), o maggiormente ospedalizzata.

L’Italia è al dodicesimo posto nell’indice HAQ, e al secondo o terzo posto per numero di vittime (sia assolue che relative alla popolazione).
La Spagna ci precede, sia per vittime che per HAQ index.

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Tecnologie della sorveglianza per limitare la diffusione del COVID19 · 2020-03-31 by mmzz

Da più parti si parla di modello Singapore o modello Nord-Corea per limitare il contagio da virus.
Si tratta di usare sistemi tecnologici per consentire di allertare i cittadini che siano entrati in contatto con persone risultate positive, così da concentrare i controlli e i confinamenti a persone effettivamente a rischio, risparmiando controlli inutili.

A prima vista queste soluzioni hanno delle attrattive: specie quelle che prevedono l’impiego di dispositivi personali che trasmettono in un raggio limitato un segnale con un codice univoco (UUID) e registrano localmente per alcuni giorni (ma non comunicano) gli UUID con i quali entrano in contatto. Tecnologie consolidate per ottenere questo scopo possono essere Bluetooth (presente in smartphone e braccialetti vari) o RFID (usati per tracciare le merci).

Nel caso qualcuno risultasse positivo, dovrebbe rilasciare la propria collezione di UUID, in modo che i rispettivi utenti possano essere avvisati di essere entrati in contatto con una persona a rischio, e prendere provvedimenti.

Le soluzioni basate sul GSM sono meno efficaci e più invasive, infatti tracciano tutta la mobilità delle persone e non tanto i contatti e poi ha delle limitazioni tecniche eccessive: al coperto, ad esempio in luoghi pubblici dove maggiore è la possibilità di contagio, il segnale da satellite è di solito assente.

L’introduzione di un dispositivo del genere ha diverse incognite, sia tecniche che soprattutto giuridiche e sociali.

Stiamo parlando di un dispositivo personale di tracciamento individuale: della mobilità (GPS) o dei contatti individuali (Bluetooth/RFID). Anche se i dati sono mantenuti sul dispositivo personale, anche se hanno una durata limitata, anche se la sua adozione è da prevedere inizialmente su base volontaria, l’efficacia della misura dipende dalla
sua adozione massiva e quindi da una triplice obbligatorietà: (1) che chiunque ne abbia uno e lo porti sempre con sé, (2) che sia obbligato a cedere i dati in caso di positività e (3) che non sia in grado di manomettere i dati, cancellando o inserendo contatti o alterando l’attività del BT.

Sul piano giuridico, come garantire il rispetto di questi obblighi? Con che tutele giuridiche? Che sanzioni devono accompagnarli? Amministrative? Penali?

Dovremo poi garantire che non avvengano abusi, come ad esempio il tracciamento per profilazione commerciale dei clienti in un negozio, pratica già diffusa via wifi e bluetooth dei telefoni cellulari.

Sappiamo che questa emergenza non finirà tra un mese, e che queste eventuali misure accettate in regime di emergenza e sotto la spinta della paura rimarranno molto a lungo e saranno potenzialmente estendibili ad altri contesti, seguendo le emergenze prossime venture.
Sappiamo anche che difficilmente si torna indietro. I provvedimenti antiterrorismo degli anni ’70 sono ancora in vigore, anche se sottoposti a referendum abrogativo: la paura spesso vince sulla libertà.

E una volta che avremo disponibili questi dati rinunceremo forse ad usarli per la lotta al terrorismo? E per la lotta alla mafia? Per la corruzione? Per l’evasione fiscale? E perché non per l’adulterio o il divieto di sosta? E per gli Stati che hanno “superato la democrazia” come sistema di governo, la lotta contro i nemici del popolo.

L’obbligo di tracciare la mobilità personale, o anche solo l’obbligo di rivelare la registrazione dei contatti individuali è una invasione pesante nella libertà individuale, che lascerei volentieri a nazioni diversamente democratiche, ed è per me impensabile che avvenga per decreto.

Il mio appello è che occorre rinunciare ad adottare soluzioni tecnologiche dall’impatto potenzialmente dirompente di cui non si anticipano gli effetti a lungo termine: abbiamo molti esempi che spesso creano più problemi di quanti ne risolvono.

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digiuno - pensieri dalla zona di interdizione/2 · 2020-03-08 by mmzz

digiuno /[lat. ieiūnus]. Periodo di astensione totale o parziale dagli alimenti – sia volontaria sia in osservanza di una prescrizione medica o di un precetto ecclesiastico – durante il quale l’organismo consuma i materiali nutritivi accumulati in precedenza/.

Quattordici giorni fa riflettevo su quello che il provvedimento di limitazione della libertà personale di movimento all’interno della Zona di interdizione avrebbe significato. Assieme alle considerazioni sul contagio stesso , cosa avrebbe comportato — soggettivamente, nella dimensione intima — il confinamento?
Sono giunto alla conclusione che si sarebbe trattato di un digiuno.

Dopo quattordici giorni ho compreso meglio quali sono le sue dimensioni.
Il digiuno è una scelta: come buona parte delle altre persone nella Zona, avrei potuto lasciare la Zona con maggiore o minore difficoltà, se lo avessi veramente voluto. Sia prima che la Zona fosse chiusa, sia dopo. Sia a piedi che forse anche in macchina. E ciò è dimostrato dai molti escursionisti entrati per sbaglio che chiedevano di uscire ai militari dei checkpoint. Se all’inizio del confinamento sono rimasto qui e se mi sono trattenuto è sostanzialmente per scelta.

In secondo luogo il digiuno è una astensione. Ad essere franco, devo precisare che il trovarmi qui prima dell’emergenza rispondeva già a un precedente bisogno di astensione dall’esposizione alla città, nato dalla considerazione che vivere o muoversi in città comporta l’essere esposti al desiderio degli altri. Cioè il desiderio altrui che io potrei esaudire: il “desiderio” delle merci di essere comprate, delle persone di essere guardate, ascoltate, ammirate o dominate, valutate in relazione ad altri. Vivere e muoversi in città espone ad una tale massa di desideri altrui che è difficile vedere il proprio; ovvero, in questo turbinio di desideri altrui è difficile sentire il proprio. Al contrario, un maggiore isolamento comporta essere più in contatto con il proprio desiderio, o anche con l’assenza di esso.

In terzo luogo il digiuno è l’accesso a una dimensione di necessità opposta alla libertà. Il mondo della natura (dal quale il virus proviene) è quello della necessità, dell’ananke a cui appartengono il bisogno di magiare, scaldarsi, spostarsi, incontrare persone con le quali scambiare, affrontare lo scorrere del tempo: i giorni, le stagioni, la vita.
Della città come luogo della libertà opposta alla necessità ha parlato lucidamente Hannah Arendt in Vita Activa riferendosi alla vita pubblica nella polis di Atene: da una parte la casa è il dominio della necessità, dall’altra la vita pubblica e sociale quello della libertà. L’uomo è libero solo dopo che ha sconfitto la necessità. La polis è emblema della nostra libertà, “essere liberi significava sia non essere soggetti alla necessità della vita o al comando di un altro sia non essere in una situazione di comando” dice Arendt. Il pericolo per la nostra salute e le restrizioni a cui siamo soggetti ci ricacciano da una parte nella necessità della sopravvivenza, e dall’altra nella sogezione al comando altrui. Ma al contrario degli ateniesi classici, noi cittadini abbiamo in buona parte perso ogni contatto immediato con la dimensione della necessità della vita: nelle città non lottiamo contro il freddo, la fame, la distanza. Nella città, e per chi non vive ai margini, il necessario è talmente garantito da essere in buona parte dato per scontato: in questo modo abbiamo in buona parte perso la percezione del valore della libertà (dalla necessità) come conquista.
Questa emergenza è un digiuno dalla città, il digiuno dalla libertà del cittadino, l’essere tuffati di nuovo nella necessità, è uno shock, ma possiamo servircene per recuperarne la radice. E di recuperare la radice, il senso, della polis, della vita politica, abbiamo un gran bisogno.

Ma la rinuncia principale, quella che ci costa di più, credo che sia quella che investe le abitudini. Tiziano Terzani in Un altro giro di giostra scrive:

Del digiunare si dice che i primi tre giorni siano i più difficili perché il corpo cerca disperatamente di fare quello è abituato. Al quarto giorno il corpo capisce, cambia ritmo e tutto diventa più facile.

Il digiuno e il confinamento rompono le abitudini, le routines. Le routines sono fonte di tranquillità, ma soprattutto generano efficienza: ci risparmiano un sacco di energia nel compiere scelte. Facciamo quello che abbiamo sempre fatto, così non dobbiamo fermarci a pensare a quello che occorre fare e in che ordine: se faccio sempre la stessa strada, non devo pensare ad ogni bivio o rotonda da che parte andare.
Ma ci sono dei momenti in cui le routines vanno rotte, le abitudini cambiate. E non è facile. Richiede energia, anche perchè le abitudini sono abiti, e gli abiti ci rivestono e dicono chi siamo. Cambiare abitudini può costarci l’identità, o pezzi di essa, e negoziare pezzi di identità è molto dispendioso.
Questo contagio, il confinamento e il digiuno che comporta cambierà molte routines, e ci costringerà a confrontarci con le identità che routines consolidate rappresentano.
Per esempio la paura di ammalarci ci farà stare più attenti al nostro corpo: faremo caso se il naso gocciola, se tossiamo, se abbiamo il fiato corto. Quale routine demoliremo? Quella di lavorare in qualsiasi condizione di salute non ci costringa a letto. Quali nuove routines useremo? Prenderemo delle misure di noi stessi, staremo attenti ai nostri limiti e agli altri. Cercheremo di attrezzarci per difendere la nostra salute, non solo di usare il nostro corpo per il lavoro.
Lo stesso riguardo possiamo averlo rispetto al lavoro, alla presenza fisica in luoghi di lavoro, agli spostamenti, i viaggi, di piacere o meno, le relazioni.

Cambiando scala, se vorremo ascoltarci, l’emergenza cambierà delle priorità anche per la collettività. E cambierà le routines collettive che ne derivano. Nel dover rispondere all’emergenza ci siamo accorti che la ricerca disperata dell’efficienza ha sacrificato la nostra resilienza: ci siamo irrigiditi a fare sempre meglio sempre la stessa cosa. Ma quello che abbiamo tagliato come spreco era proprio quel di più, la “scorta”, che ci serviva per affrontare la situazione anomala e imprevista: qualche medico in più rispetto a quelli strettamente indispensabili, qualche euro in più da spendere per il prodotto nazionale invece che quello ottenibile al massimo ribasso, qualche posto letto in più negli ospedali rispetto alla previsione della media stagionale.
In una parola, ci stiamo scontrando con il cambiamento di priorità, la routine del pensiero, che subdolamente si è infiltrato nel senso comune dominante dagli anni ’90: l’aziendalismo nella gestione della cosa pubblica, l’efficientismo spietato della compressione dei costi, magari sposato con la privatizzazione (che deve anche pagare profitto e dividendo).

Prima che il mondo fosse investito dall’emergenza climatica e da questo virus, sempre Terzani diceva:
.bq Gandhi nel suo mondo semplice, ma preciso e morale, lo aveva capito quando diceva: “La Terra ha abbastanza per il bisogno di tutti, ma non per l’ingordigia di tutti”
Grande sarebbe oggi l’economista che ripensasse l’intero sistema tenendo presente ciò di cui l’umanità ha davvero bisogno. E non solo dal punto di vista materiale.
Siccome il sistema non cambierà da sé, ognuno può contribuire a cambiarlo… digiunando, Basta rinunciare a una cosa oggi, a un’altra domani. Basta ridurre i cosiddetti bisogni di cui presto ci si accorge di non aver affatto bisogno. Questo sarebbe il modo di salvarsi. Questa è la vera libertà: non la libertà di scegliere, ma la libertà di essere. La libertà che conosceva bene Diogene che andava in giro per il mercato di Atene borbottando tra sé e sé: “guarda, guarda, quante cose di cui non ho bisogno!”
Quello di cui oggi abbiamo tutti bisogno è la fantasia per ripensare la nostra vita, per uscire dagli schemi, per non ripetere ciò che sappiamo essere sbagliato.

Possiamo superare questa emergenza approfittando dello sforzo che ci impone (per alcuni molto doloroso e costoso) per cambiare qualcosa o cercare ostinatamente di ritornare alle routines precedenti, alle identità precedenti, dichiaratamente e manifestamente fallimentari.
Possiamo riscoprire la libertà del cittadino ateniese che supera la necessità di sopravvivere in salute e si dedica alla cosa pubblica, o sforzarci ritornare alla libertà di individui-consumatori.

Questa crisi ci offre una opportunità di criticare le routines consolidate della società dei consumi di massa e cercare delle alternative. Ivan Illich ha fondato il suo sistema di critica della società industriale su una alternativa, che chiama società conviviale, nella quale vengono riformulati i rapporti tra strumento, individuo e società in modo che vengano privilegiate le intenzioni dell’uomo “austeramente anarchico”, esaltando la sua creatività e non la specializzazione dei compiti e la centralizzazione del potere. Illich (in La convivialità) scrive:

L’austerità non significa infatti isolamento o chiusura in se stessi. Per Aristotele come per Tommaso d’Aquino, è il fondamento dell’amicizia. Trattando del gioco ordinato e creatore, Tommaso definisce l’austerità come una virtù che non esclude tutti i piaceri, ma soltanto quelli che degradano o ostacolano le relazioni personali. L’austerità fa parte di una virtù più fragile, che la supera e la include, ed è la gioia, l’eutrapelia, l’amicizia.

Da questi primi giorni di digiuno ho capito che vi sono cose alle quali come Diogene posso rinunciare, e altre alle quali non sono disposto a rinunciare; ad esempio incontrare fisicamente le persone.
Possiamo ribellarci al digiuno oppure servircene per sondare il nostro desiderio — individuale e collettivo — e capire quali routines andranno conservate, quali demolite, quali costruite.

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contàgio - pensieri dalla zona di interdizione · 2020-02-24 by mmzz

Dal latino contàgio s. m. [dal lat. contagium, der. di contingĕre «toccare, essere a contatto, contaminare», comp. di con- e tangĕre «toccare»]”.
In un sistema il contagio rappresenta l’introduzione di codici alieni, dagli effetti ignoti.
Il codice interno al sistema descrive le possibili relazioni tra i suoi componenti e con l’esterno: in una parola la sua organizzazione. Seleziona le forme possibili ed esclude le forme non lecite. Stabilisce quale sia l’ordine ammesso e quale sia quello non ammesso.
Nel sistema della cellula, il DNA custodito nel nucleo e l’RNA rappresentano tale ordine ed assieme al codice epigenetico, descrivono, prescrivono e predicono il comportamento della cellula stessa: la sua risposta a fattori esterni, il suo funzionamento. Un contagio, come quello di un virus, introduce un codice nuovo, quindi comportamenti ignoti che propagati a tutto l’organismo possono anche ucciderlo. Quello che viene veicolato dal virus non è solo un messaggio, è un codice, cioè un messaggio che è in grado di alterare il comportamento del sistema che lo riceve. Entra come se fosse un messaggio qualsiasi, ma è capace di provocare profondi mutamenti nell’identità della cellula.

Anche nei sistemi sociali gli individui si scambiano codici attraverso comportamenti, segnali e messaggi, e sono quindi possibili dei contagi. Ogni comportamento nuovo può innescare emulazioni, ogni messaggio nuovo può essere replicato ed influenzare altri individui inducendo comportamenti analoghi.
Un film o un libro che ci induce ad identificarci con un personaggio i cui comportamenti sono innovativi (che siano censurati o meno dalla società), può trasmettere un codice, oltre al semplice messaggio. Dopo aver ricevuto il messagio, questo può indurci a comportarci come il personaggio, o a considerare ammissibile un comportamento che prima non avremmo ammesso.

Contagi massivi sono eventi critici (nel senso di crisi, frontiera tra un prima e un dopo) che possono far cambiare comportamenti a milioni di persone, a intere società. Le guerre mondiali, per esempio, vengono indicate dagli storici come eventi che hanno cambiato profondamente la posizione della donna nel sistema delle società occidentali. Il ruolo paritario svolto nello sforzo bellico e di resistenza ha rappresentato un codice innovativo, una frattura rispetto ai codici patriarcali precedenti, già attaccati e indeboliti culturalmente.

Quale contagio stiamo vivendo in questi giorni? Accanto a quello del virus vediamo quello dei comportamenti.
Codici espliciti e manifesti, come quelli delle leggi che prescrivono e vietano comportamenti e minacciano sanzioni, e codici di comportamenti impliciti, taciti, dei quali vediamo appena il manifestarsi.
Viviamo in una società che già si interroga sul senso di una estrema mobilità per lavoro e turismo, ma che non trova il coraggio di cambiare: mancano i codici alternativi. Ma nella crisi passiamo da un momento in cui tutti possono viaggiare ovunque a un momento in cui spostarsi è addirittura probibito. Passiamo da un mondo che ha appaltato alla Cina tutta la produzione (e l’inquinamento) a un mondo che si trova senza merci.
Questo virus introduce comportamenti critici, nel senso che criticano, e introducono una cesura, verso il passato. Forse, una volta superato il virus, torneremo indietro, ma forse no.

Ma c’è un altro codice che è cambiato improvvisamente: grazie alla improvvisa impennata della paura ben alimentata dai media, accettiamo inaudite limitazioni alla libertà personale. Accettiamo cordoni sanitari e scenari da film autoritari degli anni ’70 (ricordate Cassandra Crossing?). Anche questo introduce comportamenti. Sia comportamenti di sottomissione da parte della cittadinanza impaurita, sia comportamenti autoritari da parte politica. Ma passata l’emergenza sanitaria i cui i rischi sono in buona parte ignoti, sapranno i politici prendere decisioni altrettanto forti per proteggere i nostri territori dal rischio ben più concreto e tangibile dell’emergenza climatica?

Assieme al DNA del virus, nuovi codici sociali vengono introdotti ed in parte anche accettati. Questi codici descrivono, prescrivono e predicono il futuro comportamento dei cittadini e della politica nei confronti delle emergenze.
Nell’emergenza sanitaria lottiamo anche a costo di provvedimenti pesanti nei confronti dei cittadini, provvedimenti “che mai avremmo voluto prendere”. Bene, prendiamo atto, ma non dimenticheremo che sono stati presi, sapremo che possono essere presi. Di fronte all’emergenza climatica prossima ventura e alla disuguaglianza sociale rampante, superato il virus pretenderemo che vengano presi provvedimenti altrettanto forti.
Anche i vostri comportamenti saranno contagiosi.

Aggiornamenti: Sono apparsi un paio di articoli che vanno nella stessa direzione di quanto scritto sopra.

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Il pregiudizio delle macchine e la fisiognomica machine learned · 2016-11-26 by mmzz

Vediamo sempre più diffuso l’impiego del machine learning (ML).
Uno degli impieghi più recenti è nella lotta contro il crimine.
Nel film Minority Report non sono macchine, o perlomeno non solo macchine, a combattere il crimine prima che accada. Ci sono i precog, in grado di vedere brevemente nel futuro.
P.K.Dick ci da questa spiegazione – fantascientifica— del funzionamento della squadra pre-crimine.

Il machine learning non ci da spiegazioni scientifiche di come funziona una previsione.
Costruisce un modello sulla base di algoritmi e voluminosi insiemi di dati dai quali “impara” quali sono i fattori rilevanti. L’umano può confermare i risultati giusti e rafforzare l’apprendimento.

Ad esempio questo articolo: Automated Inference on Criminality using Face Images, dichiara che, a partire da un insieme di fotografie omogenee prese in pari numero tra persone condannate per gravi reati e incensurati, la macchina ha appreso come distinguere le persone appartenenti ai due gruppi, e di conseguenza è ora in grado di inferire correttamente, a partire da una fotografia, a quale dei due gruppi una persona appartiene.
Questo consentirebbe di identificare eventuali “tratti innati” del criminale senza alcun “pregiudizio” dovuto a “past experience, race, religion, political doctrine, gender, age” (p.2) e in assenza di fatica, privazione dal sonno, o cattiva alimentazione. Tutte cose che capitano agli umani, ma non alle macchine, che quindi sono “oggettive” e sono in grado di identificare i tratti innati nascosti nelle più “delicate caratteristiche” del volto.

Pensavamo che la fisiognomica e le dottrine del darwinismo sociale fossero morte e sepolte, ma sono pronte a resuscitare dietro la presunta neutralità dello strumento tecnologico.

Vi è una pericolosa seduzione antiscientifica dietro il machine learning, che avevo già messo in evidenza in una critica di certi procedimenti statistici “black box” che compivano inferenze saltando ogni processo esplicativo.
All’epoca (2003) dimostrammo , con MC Martini che il segno politico dei parlamentari italiani era associabile a quello zodiacale in modo statisticamente significativo.
La seduzione è quella di saltare il processo esplicativo, la spiegazione, del perché il fenomeno può essere descritto in un certo modo.

Nel caso in questione nessuno sente il bisogno di capire perché le foto dei detenuti/pregiudicati e quelle degli incensurati liberi risultino diverse.
Il problema che vi è il rischio che qualcuno sia sedotto della “oggettività” e “scientificità” del procedimento offerto dal machine learning e adottare il modello “fisiognomico” correndo il rischio di rafforzare le cause (che restano ignote) per cui (forse) il modello funziona.
Certamente nessuno verrà incriminato in base alla foto sul passaporto, ma le implicite previsioni fatte seguendo il modello descrittivo contribuiranno ulteriormente alla costruzione del criminale prima che questo abbia mai commesso un crimine.
E’ la famosa profezia che si autoavvera di Robert K. Merton.
Certo, si può dire che questi comportamenti discriminanti non sono una novità: la diffidenza verso certi “brutti ceffi” o persone con segni visibili di una certa appartenenza sociale o etnica… Banalmente: pregiudizio.

Potremmo dire che il machine learning rappresenta l’automazione del progiudizio.

Il ML non richiede un modello che sia esplicativo di nessi causali, tuttavia produce un modello descrittivo (ma opaco), usabile come modello predittivo e una possibile pericolosa conseguenza è che
finisca per diventare prescrittivo.

Prima di adottare modelli ML in contesti socialmente rilevanti che possano avere conseguenze per i cittadini sarebbe ragionevole pretendere che i nessi causali dietro al modello vengano esplicitati e validati.
Altrimenti qualsiasi scelta che si appoggi sul modello dovrebbe essere deprecata.

Se non mi spieghi perchè la macchina decide, in base a quali variabili, non posso accettare di piegare il mio giudizio al suo pregiudizio.

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Monopoli e architettura della rete · 2016-06-04 by mmzz

A favorire i monopoli non sono solo le regole del mercato (o l’assenza di esse), ma anche l’attuale architettura della rete (o l’assenza di essa).
Non voglio fare il nostalgico, ma Internet è cambiata molto, e non per il meglio.

Se invece di avere già SMTP lasciassimo il servizio di email al mercato, nel contesto competitivo di oggi, cosa avremmo?
Quattro/cinque operatori, ciascuno con applicazioni verticali non interoperabili: uno per Apple/iPhone, uno per Google/Android, uno di IBM, eccetera.
L’utente sarebbe un captive customer e dovrebbe avere una casella email per ciascuno per poter scrivere a tutti.
Esattamente come negli anni ’80: avevamo i servizi mail di SNA, BitNET, DECNET, Fidonet, OSI X.400, uucp, …
Tutte cose sbaragliate da TCP/IP+SMTP, non perchè fosse tecnicamente superiore, ma perché era open e interoperabile.
Adesso, se voglio spedire posta, devo rispettare RFC 821 e successivi, e il modello di business è cosa che riguarda me e i miei utenti.
Ci guadagno, ci perdo? Basta che rispetti lo standard. Se mi comporto male l’utente se ne va da un’altro e la concorrenza è fatta, perché l’utente può scegliere.
Nessun regolatore deve intervenire, perché l’architettura favorisce il pluralismo nel mercato.

Se avessimo sviluppato i social network come abbiamo fatto con IP, TCP, SMTP, HTTP invece che farne una applicazione Web, ora ci sarebbe una famiglia di protocolli ai quale tutti si devono attenere per scambiare messaggi personali.
Poi ci sarebbero diverse applicazioni o piattaforme che li archiviano e presentano più o meno bene e che competono per servizi aggiuntivi: ci sarebbero piattaforme open, quelle a pagamento, quelle che fanno advertising.
L’utente sceglie.
(Toh, guarda, il protocollo esisterebbe, si chiama XMPP ed è decentralizzato.)

Lo stesso per le piattaforme cooperative: dovrebbe esistere un protocollo che consente il brokeraggio di un qualcosa, inclusa la valutazione di reputazione, l’interfaccia con i circuiti di scambio monetario e quant’altro serve.
Ci sarebbero una pluralità di “piattaforme”: alcune sarebbero locali, altre globali, alcune generaliste, altre specializzate.
Queste IMHO sarebbero infrastrutture al servizio dell’economia.

L’architettura originaria di Internet favoriva la concorrenza perché centrata su protocolli interoperabili tra diverse applicazioni, tipicamente decentrate, e non su applicazioni verticali centralizzate.
Oggi gli RFC sembrano fermi, tutti cercano di sviluppare applicazioni proprietarie o al massimo li usano come base per servizi proprietari.
L’espressione moto efficace usata da Moxie Marlinspike è cannibalizing a federated application-layer protocol into a centralized service, ed è a suo dire una ricetta sicura per il successo.

Avrà ragione, ma il risultato generale dell’approccio verticale centralizzatore è la corsa al monopolio.
Chi ci perde: tutti. Chi ci guadagna: chi vince. Chi può tentare di vincere: chi è già in vantaggio.
Questo ha una scia di conseguenze sugli utenti, a partire dall’assenza di scelta, passando per il lock-in fino ai problemi con i dati personali, di cui stiamo cominciando a vedere oggi l’inizio.

Regolare questo significa entrare nel merito delle tecnologie intervenendo nell’architettura delle infrastrutture della rete.
Non con le leggi, ma sviluppando protocolli e programmi migliori, aperti, interoperabili possano offrire una alternativa agli utenti delle piattaforme e creino un vero mercato.

L’UE potrebbe favorire un processo di sviluppo di infrastrutture competitive, non accettare le architetture che centralizzano e cannibalizzano Internet.

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Festa Della Repubblica · 2016-06-02 by mmzz


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Big data bubble burst · 2015-11-17 by mmzz

Da molte parti si legge che i big data non mantengono le promesse (i dati non fruttano) e che sarebbe imminente lo scoppio di una bolla speculativa con il conseguente crollo dei mercati collegati.

Se così fosse, si potrebbe legittimamente considerare l’ammassamento dei dati da parte delle varie agenzie governative US come una misura keynesiana per creare una “effective demand” e compensare la sovraproduzione.

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Dove risiedono i dati? Geografia politica e giuridica · 2015-11-11 by mmzz

Un nuovo accordo che sostituisca Safe Harbor dopo la sentenza Schrems sembra essere in stallo sulla questione dell’accesso ai dati da parte dell’intelligence nazionale [1]. Nel frattempo alcune imprese US aggirano il problema aprendo nuovi datacenter in UE [2,3]. Per quanto ci capisco, l’esito dell’appello Microsoft [4,5] contro US Govt sulla accessibilità del governo US ai dati risiedenti in Irlanda presso Microsoft Europe sarà quantomai importante, visto che per per ora, le imprese US sono soggette a warrant federale anche per dati degli utenti conservati in territorio UE.

Sembra dunque che i giudici debbano tagliare dei nodi che la politica non riesce più a sbrogliare, incluso lo statuto di colossi commerciali sovranazionali. Ingenuamente, forse, ho la sensazione che le conseguenze possano essere diverse da quelle che nell’immediato ci si può aspettare. Il successo USA potrebbe portare ad una frammentazione dei soggetti autorizzati a operare nel mercato UE, favorendo attori UE. Al contrario, un successo Microsoft (sostenuto dall’UE) porterebbe ad un rafforzamento delle multinazionali USA libere di operare un UE mantenendo la base in US.

Se la sentenza sarà a favore del governo USA, l’accessibilità dei dati dipenderà dalla nazionalità della compagnia che li ospita, la quale dovrà una lealtà primaria al proprio governo, poi al proprio consiglio di amministrazione ed infine agli utenti. E gli utenti dovranno fare i conti con la nazionalità dei propri fornitori. Per operare in UE, Microsoft Europa dovrà sottoporsi a qualche operazione di ingegneria organizzativa per essere autenticamente europea, non solo nominalmente e fiscalmente. Il che non è un grosso vantaggio per il governo USA.

Se la sentenza sarà a favore di Microsoft, le multinazionali potranno godere di una sostanziale immunità in merito alla consegna dei dati ad autorità nazionali: potranno infatti sempre dire che i dati sono mantenuti presso altre sedi, a meno di essere costretti a mantenerli nelle aree giuridiche di pertinenza dei propri utenti. Potranno in sostanza scegliere se consegnare i dati o no, e a chi.

Le alternative a cui sono in grado di pensare sono o politiche (accordi bilaterali o internazionali sui dati (simili a quelli sull’estradizione) o tecniche. Data la attuale crisi della politica a favore delle varie tecnocrazie di economisti, militari e tecnologi, sarei sorpreso se si profilassero autentiche soluzioni politiche.
Cinque anni fa (Censura e futuro dell’infosfera e anche a e-Privacy nel 2011 ) mi lanciavo nella previsione che i dati personali sarebbero stati al sicuro nella rete solo se crittati, frammentati, ridondati e delocalizzati il più possibile. Credo che sia ancora così.
Per preservare la privacy, i dati devono risiedere sui server cloud in forma cifrata ed essere decrittati solo presso i client dell’utente, presso il quale gireranno le applicazioni e che potrà poi decidere a chi darli. Questo manda in fumo i modelli di business data-driven di quasi tutti i maggiori attori sul mercato, che a loro volta giustificano (non solo economicamente) l’esistenza stessa del Cloud e della attuale estrema centralizzazione dei dati.

Note ed estratti:

[1] www.nytimes.com/2015/11/07/technology/europe-wants-to-reach-data-transfer-pact-by-early-2016.html
Both sides are said to believe that an agreement can be finished by early next year, but negotiators are stuck in part on what kind of access national intelligence agencies will have to people’s online data. The information includes social media posts and online search histories, as well as more traditional information like financial and personal records.
European officials want the United States to provide greater assurances over how their citizens’ data may be made available to American intelligence agencies when it is transferred outside the region.
European policy makers are concerned that without further limits, any new data-transferring agreement would be challenged in European courts, according to two people with knowledge of the matter who spoke on the condition of anonymity.
By contrast, United States officials said that they believed they had provided sufficient guarantees, and that the recent ruling failed to consider improvements to American privacy safeguards over the last two years that restrict what information is accessible to the country’s intelligence agencies.

[2] www.pcworld.com/article/3002521/amazon-will-open-london-datacenter-by-early-2017.html
Amazon will open London datacenter by early 2017
AWS plans to offer its third location for Europeans worried about where their data is stored

[3] www.pcworld.com/article/3003424/what-to-do-for-privacy-after-safe-harbor-syncplicity-has-an-idea.html#tk.rss_all
EMC sold Syncplicity to a private equity firm earlier this year. The company offers subscribers a range of ways to store their data: They can keep it on their own premises, in a private cloud, in Syncplicity’s public cloud, or in some combination of those. They can access that data from desktops, laptops and mobile devices.
The new option coming in 2016 will let users select the storage region of their choice with one click and no additional steps, Syncplicity says. That could mean choosing clouds based in Europe as the sole repository for their files.
Also next year, the company will go one step further to help ensure data is protected under European privacy law. It will set up a Syncplicity Cloud Orchestration Layer in Europe so data stored on the continent isn’t even controlled in the U.S. Metadata used in managing the stored information, such as user names, email addresses and file names, will be stored and processed in Europe.
As an additional step while new rules are worked out, Syncplicity now includes so-called Model Clauses in its Cloud Services Agreements. Those clauses, crafted by the European Union, are designed to meet privacy requirements. Microsoft and other companies already use them.

[4] digitalconstitution.com/wp-content/uploads/2014/09/Microsoft-Opening-Brief-12082014.pdf
Amicus Brief, In the Matter of a Warrant to Search a Certain E-mail Account Controlled and Maintained by Microsoft Corporation

The power to embark on unilateral law enforcement incursions into a foreign
sovereign country—directly or indirectly—has profound foreign policy
consequences. Worse still, it threatens the privacy of U.S. citizens. The Golden
Rule applies as much to international relations as to other human relations. If the
Government prevails here, the United States will have no ground to complain when
foreign agents—be they friend or foe—raid Microsoft offices in their jurisdictions
and order them to download U.S. citizens’ private emails from computers located
in this country

[5] klarquist.com/wp-content/uploads/2015/01/80_14-2985-cv-BRIEF-FOR-AMICI-CURIAE-COMPUTER-AND-DATA-SCIENCE-EXPERTS.pdf
Amici respectfully submit that the resolution of this appeal should take into
account the fact that web-based email and other data stored “in the cloud” has at
least one identifiable, physical location, and that the content of customer emails is
securely stored as the confidential property of the account holder.

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Industrializzazione delle relazioni personali, inquinamento relazionale ed ecologia comunicativa · 2015-11-05 by mmzz

Dicono che viviamo in un’era post-industriale. A me pare che al contrario siamo in un contesto iperindustriale, in cui ogni aspetto della vita —o quasi— è toccato da prodotti e processi industriali.
E’ forse finita (in occidente) la stagione del fordismo spinto, ma l’industrializzazione procede in ogni settore dell’economia: i trasporti, la salute (o “benessere”), l’intrattenimento, l’abitare, l’agricoltura, la produzione e riproduzione della cultura, la finanza, l’istruzione. Ciascuno di questi ambiti economici ha la sua industria, alimentata da una retorica ideologica del progresso.

Graze alle “nuove tecnologie” anche l’industria della comunicazione (e quindi del marketing), che precedentemente si era “limitata” alla comunicazione di massa, si estende alla comunicazione individuale, ed in questo modo invade la sfera delle relazioni interpersonali.
Come nel resto delle industrializzazioni, il processo raramente è sostenibile: non introduce solo le macchine, ma assieme ad esse il peggio delle dinamiche capitalistiche per massimizzare il profitto: l’inquinamento, l’alterazione di ecosistemi, la standardizzazione dei comportamenti, l’approfondirsi di diseguaglianze, il controllo sociale.
Consiste nell’automatizzazione, mediante tecnologie, dei processi relazionali: costruzione, mantenimento, alimentazione di un rapporto tra persone: amicizia, colleganza, rapporti clandestini… tutti hanno la loro “piattaforma” ad-hoc, che si occupa della trasmissione di messaggi amplificando —è vero— l’azione individuale (in portata e intensità), facilitando l’interazione tra gruppi, introducendosi come mediatore e riducendo costi e sforzi, ma anche standardizzando e formalizzando quelle che altrimenti sarebbe una diversificazione di sfumature (amico… non amico… conoscente… sconosciuto), banalizzando i comportamenti (mi piace, condividi, commenta), frammentando l’attenzione e la concentrazione, inducendo una potenziale “tunnel vision” e esponendo al rischio di diffusione eccessiva di dati personali (oversharing).

Questa nuova area di industrializzazione è preoccupante per il suo carattere intruisvo: appare neutrale come l’aria che media la nostra voce, ma in realtà nasconde un’intelligenza precisa, dietro alla quale si palesa la necessità di profitto, tipicamente ottenuto con la pubblicità “contestuale” e “mirata”, offerta ad un soggetto di cui la piattaforma ha costruito, monitorandolo incessantemente, un modello di comportamento che rappresenta il vero prodotto da vendere (sesso, età, gusti, attitudini, ecc) come bersaglio di pubblicità. Più il modello rende prevedibile il soggetto che vende ed è in grado di condizionarne i comportamenti (e indurlo a cliccare e comprare), più vale. La modellizzazione del soggetto fa si che la piattaforma è in grado di proporre sia prodotti da comprare che nuovi contatti, o “amicizie”, per allargare le nostre relazioni. Il tutto viene fatto secondo algoritmi completamente opachi ed oscuri a chi vi è soggetto.

Al pari dei processi industriali che hanno riguardato la siderurgia, la chimica, l’estrazione mineraria, l’agricoltrura, l’industria delle relazioni non ha alcun rispetto per l’ecosistema, l’ambiente nel quale le relazioni avvengono. Al contrario, più un processo è “disruptive” cioè dirompente, meglio è, secondo una vecchia ma sempre rinnovata ideologia della modernità e del progresso.
I “problemi di privacy” dei quali sentiamo parlare come se fossero spiacevoli effetti collaterali sono in realtà l’equivalente dell’inquinamento dei fiumi e dell’aria dell’industrializzazione selvaggia: una operazione necessaria per massimizzare profitti. Minimizzando l’inquinamento l’industria non rende.
E tutti noi, lavoratori e merce dell’industria delle relazioni, rischiamo di perdere non una mano sotto una pressa, ma dati personali che possono rovinarci la vita, o qualità e ricchezza di relazioni che fanno parte di un’esistenza equilibrata.

La trasformazione della persona in un prodotto e l’industrializzazione delle sue relazioni comporta l’inquinamento del contesto sociale in cui le relazioni avvengono. Alcuni esempi di inquinamento a vario livello possono essere i seguenti:

L’inquinamento dei fiumi, delle acque, e l’esaurimento delle risorse naturali hanno avuto bisogno di tempo e molto sforzi da parte del movimento ecologista per ripristinare un minimo decente di ambiente sano, e solo in ecosistemi dove l’industrializzazione ha già fatto i suoi danni. Gli stessi problemi ambientali si ripetono nei paesi “in via di sviluppo”.
Allo stesso modo occorre un ecologia della comunicazione e della relazione per evitare che il contesto relazionale, sociale e politico venga inquinato dai sottoprodotti della industrializzazione delle relazioni, oggi in corso in questa parte del mondo.

Cancellare la rivoluzione digitale? No. Renderla sostenibile e farlo —per una volta— prima che sia faticosamente dimostrato che ha fatto danni irreparabili.

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